Aggressioni agli operatori sanitari, numeri e identikit

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Li abbiamo chiamati eroi, mentre eravamo chiusi in casa e loro lavoravano in prima linea per contrastare il virus pandemico. Ora però sono tornate le aggressioni: vittime medici, ma anche infermieri e altri operatori sanitari, spesso donne e giovani.

A dircelo è l’Inail, che in occasione della seconda edizione della Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari del 12 marzo ha analizzato i dati relativi ai casi di infortunio in occasione di lavoro accertati dall’Istituto e codificati come aggressioni e minacce nei confronti del personale sanitario. Ebbene, nel triennio 2019-2021 sono stati 4.821, per una media di circa 1.600 l’anno. Ma secondo le organizzazioni dei sanitari si tratta di dati che mostrano solo una parte del fenomeno. 

La punta dell’iceberg

Gli infermieri sono la categoria più colpita dalle aggressioni sul lavoro. Purtroppo, però, le cifre sono ben peggiori di quelle emerse, afferma la Fnopi  (Federazione nazionale Ordini professioni infermieristiche)

Una rilevazione effettuata da otto università, capofila Genova, effettuata sugli infermieri che hanno subito violenze fisiche o verbali mette in luce che, rispetto ai circa 5mila casi denunciati in un anno, ce ne sono 26 volte di più, circa 125.000, non registrati. Ancora più grave è che per il 75% sono violenze che coinvolgono donne e che nel 40% circa dei casi si è trattato di violenze fisiche.

Aggressioni che hanno lasciato il segno: il 33% delle vittime è caduto in situazioni di burnout e il 10,8% presenta danni permanenti a livello fisico o psicologico.

“Molti colleghi, non solo infermieri ma tutte le professioni sanitarie che sono a contatto con l’utenza, non stanno denunciando soprattutto le aggressioni verbali, perché sembra quasi sia diventata una modalità relazionale con cui fare i conti quotidianamente”, ha detto la presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi), Barbara Mangiacavalli.

“Il vissuto di un infermiere, di un professionista che in qualche modo è aggredito è un vissuto che fa fatica ad essere elaborato. Ci sono studi internazionali che ci parlano di episodi di burnout, stress, disaffezione rispetto al lavoro e alla professione, tanto è vero che in questi anni stiamo registrando moltissimi abbandoni della professione. L’aggressione è l’effetto di una serie di cause anche importanti che affondano le radici in diversi contesti, tra cui i modelli organizzativi e alcune mancate risposte che i cittadini patiscono”, ha aggiunto.

“I bisogni dei cittadini spesso non vengono convogliati verso i luoghi più adeguati, ad esempio molti accessi al Pronto Soccorso non sono legati a situazioni di criticità vitali. Emergono invece bisogni di ascolto, necessità di presa in carico di situazioni complesse, che sfiorano la sfera socioassistenziale. Si aspettano quindi una risposta da un servizio, da una struttura, che spesso non è quella corretta. Occorre quindi investire – ha sottolineato Mangiacavalli – affinché vi siano servizi territoriali sempre più capillari e conosciuti”.

L’identikit delle vittime

Secondo i dati Inail quattro aggressioni su 10 sono nella fascia 35-49 anni. Il 37% è concentrato nel settore assistenza sanitaria, che include ospedali, case di cura, istituti, cliniche e policlinici universitari, il 33% nei servizi di assistenza sociale residenziale, che comprendono case di riposo, strutture di assistenza infermieristica e centri di accoglienza, mentre il restante 30% ricade nel comparto dell’assistenza sociale non residenziale.

Il 71% delle aggressioni riguarda le donne, mentre per entrambi i generi si rileva che il 23% dei casi interessa gli operatori sanitari fino a 34 anni, il 39% quelli da 35 a 49 anni, il 37% da 50 a 64 anni e l’1% oltre i 64 anni.

I bersagli

Sempre in base all’analisi Inail oltre un terzo delle aggressioni riguarda i tecnici della salute, in cui si concentra più di un terzo dei casi. Si tratta appunto prevalentemente di infermieri, ma anche di educatori professionali, normalmente impegnati in servizi educativi e riabilitativi con minori, tossicodipendenti, alcolisti, carcerati, disabili, pazienti psichiatrici e anziani all’interno di strutture sanitarie o socio-educative.

Seguono, con il 29% dei casi, gli operatori socio-sanitari delle professioni qualificate nei servizi sanitari e sociali e, con il 16%, le professioni qualificate nei servizi personali e assimilati, soprattutto operatori socio-assistenziali e assistenti-accompagnatori per persone con disabilità. Più distaccata, con il 3% dei casi di aggressione ai danni del personale sanitario, la categoria dei medici, che non include però nell’obbligo assicurativo Inail i sanitari generici di base e i liberi professionisti.

Occorre agire subito

“Le violenze sugli operatori sanitari sono diventate un vero e proprio ‘bollettino di guerra’ quotidiano – ha detto il segretario nazionale Anaao Assomed, Pierino Di Silverio – Pur apprezzando la volontà dei ministri della salute e dell’Interno di intervenire per arginare il fenomeno, è giunto il momento di far seguire alle intenzioni le azioni”.

Per Di Silverio “non bastano misure deterrenti, seppur utili, quali drappelli di polizia, inasprimento delle pene e procedimenti d’ufficio per chi commette violenza sugli operatori. Occorre un cambio di paradigma del sistema di cure. Bene la sensibilizzazione, ma le aggressioni sono l’effetto di un disagio profondo e non la causa”.

Un disagio di cui ha parlato più volte anche il presidente della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici), Filippo Anelli. “Circa il 68% degli operatori sanitari nel corso della vita –  ha ricordato Anelli – è stato vittima di almeno un episodio di violenza, dagli ambulatori di psichiatria alle guardie notturne: centrale sarebbe prevedere la figura di un mediatore in grado di spiegare ai cittadini, nei momenti di tensione che possono verificarsi nei luoghi di cura, cosa sta avvenendo. E poi serve il restituire il giusto tempo alla cura, cosa impossibile quando i pazienti sono tanti e sanitari troppo pochi“.

“I medici e i dirigenti sanitari oggi – ha ricordato Di Silverio – sono sottopagati, aggrediti, esposti e sottoposti a tre tribunali, lavorano in costante carenza di organico e sono ingabbiati e sequestrati nei luoghi di lavoro tanto che da una nostra recente indagine è risultato che 1 su 3 è disposto a cambiare lavoro. Abbiamo chiesto al ministro Schillaci interventi urgenti di tipo economico e legislativo per rendere gli ospedali luoghi sicuri e attrattivi sia per i professionisti che per i pazienti. Ma non c’è più tempo. Noi ci siamo. Pronti a collaborare se si vuole agire, pronti a fermarci – ha ammonito Di Silverio – se non agirà”.

 

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