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Indi Gregory, perchè la sua morte è una sconfitta

cure palliative Indi
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La triste vicenda di Indi Gregory è giunta al suo epilogo: la bimba di 8 mesi affetta da una grave malattia mitocondriale, nata e vissuta in ospedale, è morta all’1.45 di stanotte in un hospice. “Io e mia moglie Clare siamo arrabbiati, affranti e pieni di vergogna” ha affermato Dean Gregory, il papà della piccola.

“Il servizio sanitario nazionale e i tribunali – ha detto a LaPresse Gregory – non solo le hanno tolto la possibilità di vivere, ma le hanno tolto anche la dignità di morire nella sua casa”. Quella di Indi è una vicenda che ha suscitato forti reazioni nel nostro Paese. Al netto degli schieramenti sui social – e dell’umana vicinanza ai due giovani genitori in lutto – probabilmente la sua storia è una sconfitta per tutti: per la scienza, per l’alleanza medico-paziente e, alla fin fine, per l’umanità.

Il caso di Indi, la cittadinanza e la distanza tra GB e Italia

La malattia e la diagnosi (possibile) pre parto

I medici del Queen’s Medical Centre di Nottingham e i giudici britannici hanno definito la malattia di Indi terminale. Per questo – dopo una lunga battaglia giudiziaria ingaggiata dai genitori, Dean Gregory e Claire Staniforth – e “nel miglior interesse” della bimba, è stato disposto il distacco dai dispositivi che la tenevano in vita.

Cosa avrebbero potuto fare allora al Bambino Gesù? L’obiettivo era assicurare alla piccola terapie palliative e, forse, tentare un approccio sperimentale. Ma “la malattia della piccola Indi Gregory era diagnosticabile già in utero – ha sottolineato Claudio Giorlandino, presidente della Sidip, Società Italiana di Diagnosi Prenatale e Medicina Materno Fetale – con una ecografia si ha già il primo campanello di allarme, poi si procede con l’esame dell’Esoma – la parte del nostro Dna che ci costituisce – sul liquido amniotico e sul sangue dei genitori per i necessari confronti bioinformatici. Con questo esame si sarebbe fatta perfettamente la diagnosi e si sarebbe risparmiata questa grande angoscia che ci ha tenuti tutti con il fiato sospeso fino a oggi”.

Insomma, la diagnosi prenatale non c’è stata. E la ricerca non ha ancora sviluppato un trattamento mirato. “Indi era portatrice di una forma genetica gravissima che determina la totale ed irreversibile inattivazione dei mitocondri di diversi organi e apparati, impedendo alle cellule di sopravvivere e questo avviene soprattutto in quelle cerebrali giacché nel cervello queste, più di tutte, hanno bisogno che i mitocondri, gli organuli che producono energia, funzionino perfettamente”, afferma Giorlandino, convinto che sarebbe stata “una crudeltà tenerla in vita contro ogni logica e umanità prolungandone solo quella sofferenza, che anche un organismo neurologicamente così compromesso, potrebbe comunque avvertire dal punto di vista sensoriale. Non sarebbero esistite cure né in Inghilterra, né in nessun altro Paese”.

I danni al cervello e la sconfitta della scienza

“La patologia della quale era affetta la piccola Indi determina danni ben evidenti a livello dell’encefalo. Il fenotipo prenatale presenta dei segni eco graficamente molto visibili a livello cerebrale: quali delle voluminose cisti colliquative, ventricolomegalia, corpo calloso sottile, mega cisterna magna e cavità di grandi dimensioni. Pur essendo noti e documentati dagli studi europei Europeristat i grandi limiti della medicina materno fetale britannica, stupisce – insiste Giorlandino – come non se ne siano avveduti. Diagnosi prenatali di patologie cerebrali così evidenti, da noi, sono alla portata anche di centri di primo livello, di ginecologi ancora in formazione. Ovviamente tali quadri vengono poi indirizzati verso approfondimenti specifici per giungere alla precisazione diagnostica”, aggiunge il presidente Sidip.

Il caso in India

Giorlandino ricorda il caso di un bimbo con la malattia di Indi “riportato in letteratura a fine novembre dello scorso anno: fu perfettamente diagnosticato con metodica Whole ExomeSequencing sul Liquido amniotico, presso il Nizam’s Institute of Medical Sciences di Hyderabad, in India. Qui i genitori non richiesero l’interruzione di gravidanza ma, ben informati, decisero insieme ai medici che il piccolo tornasse serenamente al Padre celeste, senza assistenza medica o accanimento, senza contese internazionali e senza alcun clamore mediatico, dopo soli 3 giorni dalla nascita”.

Tra cure palliative e accanimento

Ben diversa la storia di Indi Gregory, che ci ha ricordato le vicende di Charlie Gard e Alfie Evans. Una storia che ha confermato la distanza tra Italia e Gran Bretagna sul fine vita pediatrico: da una parte c’è la spinta a garantire la migliore assistenza possibile a un bimbo malato anche quando non c’è opportunità di cura, dall’altra quella a interrompere terapie che comporterebbero solo ulteriori, inutili sofferenze.

Posizioni diverse, quelle dei due Paesi, con i tentativi dell’Italia di portare la bimba all’Ospedale Bambino Gesù anche grazie alla decisione di del Governo Meloni di conferirle d’urgenza la cittadinanza italiana. Mosse respinte al mittente dai giudici britannici, probabilmente lette anche come un’ingerenza inaccettabile e che poteva stabilire pericolosi precedenti. “Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, tutto il possibile. Purtroppo non è bastato. Buon viaggio piccola Indi”, ha scritto sui social la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.  

Ebbene, se la diplomazia e i legali impegnati nel cercare di portare Indi in Italia sono stati sconfitti, in questo caso faremmo bene, forse, a puntare l’attenzione su un altro aspetto:  l’alleanza medico-paziente. Un aspetto drammaticamente mancato. 

Una domanda senza risposta

Possibile mai che in otto mesi di vita della bimba trascorsi H24 in ospedale, nessun medico sia riuscito a parlare davvero con i genitori di Indi, illustrando loro le reali possibilità della medicina e trasmettendo quelle informazioni che, nel caso riportato da Giorlandino, hanno portato a scelte tanto diverse?

Ogni genitore vuole il meglio per il proprio figlio, anche quando le condizioni sono drammatiche. Non possiamo davvero giudicare i sogni e le speranze dei genitori di Indi, ma la sua storia, come quelle di Charlie e di Alfie prima di lei, evidenzia chiaramente come – quando la scienza non ha (ancora) soluzioni – l’umanità, la comprensione e il dialogo possano e debbano fare la differenza.

E questo davvero “nel migliore interesse” del piccolo paziente. Tutto ciò per Indi Gregory non è accaduto, ecco perché siamo tutti sconfitti da questa ennesima battaglia giudiziaria tra genitori e NHS.

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