Più bambini significa più tumori? Serve una nuova visione della medicina

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Prisco Piscitelli

Prisco Piscitelli

È oramai dato per scontato anche dai non addetti ai lavori che laddove la popolazione pediatrica è più numerosa è inevitabile “attendersi” una maggiore incidenza (nuovi casi) di tumori maligni tra i bambini. Pur riconoscendo il rigore metodologico degli attuali studi epidemiologici, l’autore e i suoi colleghi contestano in realtà il concetto stesso di “casi attesi”, specialmente in ambito pediatrico e in particolar modo laddove, anno dopo anno, “ci si attende” un incremento inarrestabile, invariabilmente derubricato a “normalità” in quanto “in linea con i trend internazionali” (anch’essi in continua crescita e quindi assimilabili ad un’asticella spostata continuamente più in alto).

È come se si volesse impedire lo squillo di quegli opportuni campanelli d’allarme che richiamino l’attenzione della comunità scientifica sui veri nodi del problema: le cause dell’irrefrenabile aumento dell’incidenza di neoplasie in fasce sempre più giovani della popolazione in tutto il mondo.

È infatti solo individuando la causa di un fenomeno patologico che è possibile mettere in atto le adeguate misure di prevenzione, che consentano non solo di curare sempre meglio un maggior numero di pazienti oncologici, ma di non far ammalare di tumore le persone, soprattutto i bambini e i nostri giovani. L’osservazione epidemiologica rende oramai obsoleta la tradizionale teoria dell’accumularsi di mutazioni casuali del genoma cellulare o non dovremmo registrare i massimi aumenti di neoplasie maligne proprio tra i giovani e incrementi vistosi anche nei bambini, persino sotto i 3 anni o addirittura 1 anno di età.

Nuove evidenze supportano il ruolo dei cancerogeni ambientali in chiave “epigenetica” quale possibile spiegazione della transizione epidemiologica che stiamo osservando (peraltro ampliabile anche ad altri ambiti quali le malattie neurodegenerative, i disturbi del neurosviluppo, l’infertilità o l’abortività spontanea). Una maggiore comprensione delle cause del fenomeno è sempre un passo necessario per la ricerca delle soluzioni a qualsiasi problema e nel caso dei tumori diventa urgente comprenderne e rimuoverne le cause.

Di certo, se non proviamo nemmeno a combattere la battaglia per la riduzione dell’incidenza (il numero di nuovi casi annui), non potremo mai vincere la guerra contro i tumori, in cui siamo destinati ad essere travolti dall’enorme numero di ammalati che popolano le nostre proiezioni per il futuro e dall’insostenibilità dei costi delle terapie, pagando un prezzo incalcolabile in termini di “costi umani” di questa malattia. Di qui l’appello ai medici e agli epidemiologi di spostare primaria i riflettori dalla semplice analisi di un fenomeno caratterizzato da un così ampio e grave impatto sociale (che rischia talora di svilirsi in un mero e vano esercizio contabile, per quanto rigoroso e impegnativo) verso una vera prevenzione primaria, diventando protagonisti di una nuova visione in grado di contribuire a cambiare il mondo in cui viviamo, migliorando la salute dei più piccoli e di chi ha “tutta una vita davanti”.

Quando ci siamo rassegnati all’ineluttabilità dell’aumento dell’incidenza dei tumori tra i giovani e i bambini? Nel dizionario enciclopedico Treccani pubblicato nel 1955, alla voce “tumore” era abbinata la definizione di “malattia professionale dei lavoratori dell’industria chimica”, riferendosi quindi ad una causa ben precisa. Questo chiaro riferimento ad un’eziologia del cancro come collegata alle sostanze chimiche è progressivamente scomparso nei decenni successivi, aprendo la porta a spiegazioni generiche basate su una patogenesi “multifattoriale”.

Oggi, il cancro è generalmente associato all’invecchiamento della popolazione come conseguenza dell’accumulo casuale (o “stocastico” come si usa dire) di un danno genetico ossidativo. L’incremento dei casi è inoltre attribuito da molti addetti ai lavori al continuo miglioramento delle nostre capacità diagnostiche: siamo cioè in grado di fare più diagnosi di tumori rispetto al passato. Tuttavia, questa spiegazione rischia d’intorbidire le acque, in quanto non chiarisce perché gli aumenti più elevati e più rapidi dell’incidenza del cancro, in termini di variazioni medie annuali, si osservano nelle fasce di età più giovani, compresi i bambini, che non sono esposti ai tradizionali fattori di rischio come il fumo di sigaretta (“i bambini non fumano”), fattori professionali o prolungata adozione dei cosiddetti “stili di vita insalubri”.

Si stima che i nuovi casi annuali di tumori pediatrici aumenteranno fino a 13,7 milioni a livello globale dal 2020 al 2050, provocando 9,3 milioni di decessi tra i bambini che vivono nei Paesi a basso reddito. Ma c’è di più: negli ultimi 20 anni il cancro è diventato la principale causa di morte correlata alla malattia in tutte le fasce di età pediatriche in Europa.

Il progetto ACCIS (Automated Childhood Cancer Information System) condotto dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) su 63 enormi registri tumori in 19 paesi europei ha evidenziato un aumento annuo fino all’1,5% di tutti i tumori pediatrici: +2% nel primo anno di vita, con gli aumenti più significativi per linfomi, sarcomi, tumori delle cellule germinali e del sistema nervoso. Si tratta guarda caso di neoplasie che sono di più frequente e documentato riscontro in aree ad elevata contaminazione ambientale, in cui particolare impatto sembra avere l’inquinamento atmosferico.

In questo contesto, non è ragionevole minimizzare questo fenomeno quando si valuta l’incidenza dei tumori pediatrici a livello nazionale, semplicemente segnalando che gli aumenti osservati sono coerenti con gli attuali “trend” internazionali, che sono noti per essere in continuo rialzo. Non possiamo rassegnarci all’assioma secondo cui le regioni con un numero più elevato di bambini devono anche sperimentare una maggiore incidenza di tumori pediatrici. Quando abbiamo iniziato a pensare che avere più bambini dovesse significare avere più tumori? La risposta della comunità medica non può limitarsi a contare il numero di decessi e di casi incidenti (laddove lo si fa), peraltro col rischio di fornire (come spesso accade) questi dati dopo molti anni, in modo che possano essere meno utili per i responsabili delle politiche sanitarie.

L’aumento dell’incidenza del cancro nel primo anno di vita è stato potenzialmente collegato all’esposizione transplacentare (materno-fetale) ad agenti pro-cancerogeni o alla trasmissione transgenerazionale di alterazioni epigenetiche già presenti nei gameti come conseguenza dell’esposizione genitoriale a diversi contaminanti ambientali nei “primi mille giorni di vita” o durante gli anni fertili dell’adulto: si tratta di un cambio di prospettiva rispetto al paradigma eziologico della teoria della cancerogenesi. Infatti, nei bambini non possiamo ipotizzare – al contrario degli adulti e degli anziani – un progressivo accumulo di mutazioni casuali (stocastiche) del DNA, come presuppone il modello patogenetico classicamente accettato (vale a dire, la cosiddetta “teoria delle mutazioni somatiche”). Riconoscere la teoria eziologica più appropriata per la cancerogenesi ci consentirebbe di attuare adeguate misure di prevenzione primaria, come la rimozione dell’esposizione individuale a sostanze chimiche e agenti cancerogeni ambientali (IARC 1 e 2). Anche in medicina e sanità pubblica, infatti, il pensiero precede sempre l’azione.

Come proteggere la salute dei nostri giovani? Non proteggiamo la salute dei nostri figli e nipoti se non riusciamo ad affrontare nel modo giusto il tema della riduzione dell’incidenza del cancro: i bambini non devono soffrire di tumori. Le politiche di sanità pubblica dovrebbero concentrarsi sul mantenere in salute le persone (cioè su di una vera prevenzione primaria) e sulla rimozione delle cause del cancro.

Come parte della comunità medico-scientifica, noi medici ed epidemiologi abbiamo il dovere di contribuire ad un deciso cambio di rotta, in grado di salvaguardare la salute delle prossime generazioni con lo stesso impegno che stiamo mettendo nella ricerca sui cambiamenti climatici. Può darsi che questo voglia dire smettere di “conteggiare” i morti e di discutere sulla coerenza tra casi “osservati” e “attesi”. Dovremmo semplicemente smettere di “aspettarci” un aumento persistente dei casi di tumore pediatrici e giovanili o falliremo nella nostra missione primaria: fornire ai decisori prove e dati sulla base dei quali abbiano informazioni sufficienti per proteggere la salute delle persone, prestando particolare attenzione e priorità ai bambini e ai giovani.

Le informazioni relative alle principali cause di ricoveri e decessi stratificate per fasce di età e aree geografiche dovrebbero essere fornite ai decisori quasi in tempo reale – entro pochi mesi – utilizzando gli ampi dataset disponibili nei Sistemi sanitari o a livello di compagnie assicurative. È possibile ottenere facilmente dati su tutti i diversi tipi di cancro dal 2000 ad oggi. La medicina moderna dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione primaria. Azioni preventive specifiche devono essere adottate sulla base dei fattori di rischio che caratterizzano le popolazioni a livello locale, tenendo conto anche dei determinanti sociali della salute, poiché la lotta alle disuguaglianze sociali può contribuire a prevenire malattie e tumori.

La sfida è decidersi ad adottare una nuova visione della medicina e dell’epidemiologia che sia “in grado di cambiare il mondo”. Le statistiche che stiamo generando devono trasformarsi in azioni preventive evidenziando tempestivamente le minacce emergenti per la salute delle persone – con un focus particolare sui bambini e sui giovani – per fornire possibili soluzioni, giacché è inaccettabile che il cancro sia la prima causa di morte per malattia in età pediatrica.

Per raggiungere questo obiettivo, le osservazioni epidemiologiche (che rappresentano i “fatti”) dovrebbero guidare lo sviluppo di coerenti teorie eziologiche della cancerogenesi, così come per tutte le altre condizioni che sono in drammatico aumento anche in età pediatrica: malformazioni congenite, malattie autoimmuni e metaboliche (compreso il diabete di tipo 1), demenze o disturbi dello spettro autistico, tenendo conto delle interazioni tra epigenoma, stile di vita e inquinamento ambientale (in particolare di quello atmosferico). Si apriranno in tal modo opportunità inaspettate per la prevenzione primaria sia farmacologica che non farmacologica e sarà possibile ridurre l’impatto di queste nuove epidemie non infettive che caratterizzano il XXI secolo.

*Prisco Piscitelli, vicepresidente Sima

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