L’inquinamento colpisce al cuore (e le nuove regole europee)

inquinamento
Aboca banner articolo

L’inquinamento dell’aria è un triste trend topic in questi giorni e una soluzione al problema sembra ancora lontana. Ma mentre si dibatte sulla veridicità del primato di Milano come terza città più inquinata del mondo, uno studio dall’Harvard T.H. Chan School of Public Health (Usa) appena pubblicato su ‘British Medical Journal’ conferma che l’esposizione cronica all’inquinamento da particolato fine (PM2.5) aumenta il rischio di ricovero per problemi cardiaci negli anziani.

Lo studio ha analizzato le cartelle cliniche e i livelli di esposizione al PM2.5 di quasi 60 milioni di americani di età pari o superiore ai 65 anni, assistiti da Medicare, in un periodo compreso tra il 2000 e il 2016. Dopo aver ricostruito una mappa dei livelli di PM2.5 nelle diverse regioni degli Stati Uniti, i ricercatori l’hanno confrontata con i codici postali di residenza dei soggetti in esame. Poi sono andati a valutare la tempistica del primo ricovero per malattie cardiovascolari (cardiopatia ischemica, malattie cerebrovascolari, insufficienza cardiaca, cardiomiopatie, aritmie, aneurismi aortici toracici e addominali).

In questo modo, hanno evidenziato che l’esposizione triennale media al PM2.5 correla con un aumentato rischio di ricovero per malattie cardiovascolari, in particolare per cardiopatia ischemica, malattie cerebrovascolari, insufficienza cardiaca e aritmie. Il rischio di ricovero per malattie cardiovascolari negli anziani è risultato pari a 3,04% l’anno, in presenza di livelli di esposizione cronica al PM2.5 di 7-8 μg/m3.

Per esposizioni al PM2.5 inferiori a 5 μg/m3 (limiti suggeriti dall’Organizzazione Mondale della Sanità, Oms) il rischio di ricovero per problmei cardiovascolari scendeva invece al 2,59% l’anno. Quindi, ridurre i livelli medi annuali di PM2.5 da 7-8 μg/m3 a meno di 5 μg/m3 potrebbe ridurre del 15% i ricoveri per malattie cardiovascolari, concludono gli autori dello studio.

“Questi risultati – ammonisce Joel Schwartz, professore di epidemiologia ambientale della Harvard T.H. Chan School of Public Health – indicano che la soglia di esposizione massima per il PM2.5, appena aggiornato dall’Environmental Protection Agency (Epa) è chiaramente ancora insufficiente per proteggere la salute pubblica”.

A inizio febbraio, l’Epa americana aveva ridotto negli Standard nazionali di qualità dell’aria i limiti di esposizione annuale medi al PM2.5, da 12 μg/m3 a 9 μg/m3.  I rischi per la salute derivanti dall’esposizione cronica ai PM2.5 rimangono sostanziali per almeno tre anni; ad essere interessate sono soprattutto le persone con un livello di istruzione più basso e appartenenti a ceti sociali svantaggiato.

“I risultati del nostro studio – commenta Yaguang Wei, Dipartimento di Sanità Ambientale della Harvard T.H. Chan School of Public Health – hanno implicazioni profonde e sottolineano i benefici che potrebbero derivare dall’implementazione di politiche di controllo dell’inquinamento dell’aria più rigorose e stringenti, rispetto agli standard appena aggiornati dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente (Epa), che sono nettamente superiori ai 5 microgrammi per metro cubo, stabiliti dall’Oms”.

Ma, polemiche meneghine a parte, le cose vanno decisamente peggio in Europa. Il valore di esposizione limite annuale per il particolato fine PM2,5 in Europa fino a pochi giorni fa era di ben 25 µg/m³. Poi, martedì scorso, nel corso di un’accesa negoziazione tra Parlamento e Consiglio Europeo si è approdati ad un accordo politico provvisorio su nuove misure per garantire ai cittadini europei una qualità dell’aria meno dannosa per la loro salute, oltre che per quella degli ecosistemi naturali e della biodiversità.

È stato dunque proposto di abbassare la soglia limite del PM2,5 a 10µg/m³, entro il 2030. Un passo epocale, anche se ancora molto lontano dai limiti suggeriti dall’OMS, che sono come ricordato 5 µg/m³, cioè la metà dei nuovi limiti europei. Ad essere ritoccati al ribasso sono stati anche i limiti d’esposizione al secondo inquinante con il maggiore impatto documentato per la salute umana, il biossido d’azoto (NO2), i cui limiti da martedì passeranno dagli attuali 40 ai 20 µg/m³, sempre entro il 2030.

Sono stati proposti inoltre più punti di campionamento della qualità dell’aria nelle città. I nuovi standard di qualità dell’aria saranno quindi riesaminati entro fine 2030, poi in seguito almeno ogni cinque anni o anche più frequentemente in caso di nuove evidenze scientifiche o di una revisione delle Linee Guida sulla Qualità dell’Aria dell’Oms.

Gli Stati Membri potranno comunque chiedere una deroga fino a 10 anni, rispetto alla deadline del 2030, per implementare i nuovi limiti. Tutti gli Stati dell’Ue dovranno inoltre presentare una roadmap per la qualità dell’aria entro fine 2028, per stabilire le misure a breve e lungo termine per ottemperare ai nuovi valori limite del 2030. L’accordo dovrà adesso essere adottato dal Parlamento e dal Consiglio, prima che la nuova legge venga pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’UE, per poi entrare in vigore 20 giorni dopo. Gli Stati Membri avranno quindi tempo 2 anni per applicare le nuove regole. Un piccolo ma significativo passo avanti insomma, verso l’ambizioso e forse utopistico obiettivo di portare a zero l’inquinamento atmosferico in Europa, entro il 2050, in linea con lo Zero Pollution Action Plan.

Ma, intanto, l’inquinamento atmosferico continua a rappresentare la principale causa ambientale di decessi prematuri in Europa, provocando circa 300mila morti l’anno.

ABBIAMO UN'OFFERTA PER TE

€2 per 1 mese di Fortune

Oltre 100 articoli in anteprima di business ed economia ogni mese

Approfittane ora per ottenere in esclusiva:

Fortune è un marchio Fortune Media IP Limited usato sotto licenza.