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Social freezing, istruzioni per l’uso

social freezing Ubaldi

Mettere ‘in banca’ il sogno di un figlio, ma farlo in modo consapevole e, soprattutto, nel momento giusto. Potremmo descrivere così il ricorso al social freezing, una pratica che negli ultimi anni  è uscita dall’ombra anche nel nostro Paese, come riporta un recente report del gruppo Genera relativo a 8 cliniche su tutto il territorio nazionale.

“Tra il 2022 e il 2023 c’è stato un aumento del 20% circa nei nostri centri”, precisa a Fortune Italia Filippo Maria Ubaldi, direttore medico dei Centri Genera in Italia, una rete di cliniche specializzate in medicina della riproduzione che in questi anni ha fatto venire alla luce 9.200 bimbi grazie alle tecniche di fecondazione assistita. Ubaldi delinea l’identikit della procedura e delle donne per le quali è indicata, nel terzo approfondimento dedicato alla preservazione della fertilità, in un Paese afflitto da un inverno demografico che non sembra voler finire.

Un problema culturale

Abbiamo detto che il trend è in crescita, ma questa procedura “rappresenta in Italia ancora una decisa minoranza rispetto ai trattamenti che pratichiamo, ovvero nel 2023 è il 6% del totale. Numeri molto bassi rispetto ad altri Paesi come gli Usa, il Regno Unito e la Spagna, dove le procedure di prelievo per crioconservare gli ovociti per motivi sociali rispetto ai trattamenti di Pma per fecondazione in vitro ‘standard’ rappresentano una percetuale maggiore rispetto all’Italia”.

All’origine di questo gap, continua Ubaldi, “c’è un problema culturale: l’innovazione arriva da Oltreoceano con un ritardo di diversi anni, e questo anche se nel caso del congelamento ovocitario la tecnica è stata messa a punto in Spagna e in Italia nei nostri Centri”.

La questione dell’età

Fatta questa premessa “voglio sottolineare la grandissima disinformazione nella popolazione, testimoniata dal fatto che a rivolgersi ai centri sono persone per cui il congelamento ovocitario non è più indicato. Molte delle donne che si rivolgono a noi – rileva lo specialista – hanno un’età superiore ai 35 anni: in questo caso il congelamento ovocitario ha un’efficacia decisamente inferiore rispetto a quando viene praticato prima dei 35 o, ancora meglio, dei 30 anni”.

Insomma, oggi le donne troppo spesso pensano a questa possibilità quando è troppo tardi. “Ecco perchè sarebbe bene, invece, offrire un’informazione corretta a livello istruzione universitaria: occorre parlare alle donne fra i 25 e i 30 anni. A quest’età l’80% degli ovociti è cromosomicamente corretto e quindi ha senso congelarli. Se lo faccio in una donna di 40 anni, solo tre gameti su dieci saranno cromosomicamente corretti, e nel momento di scongelarli, in base al numero di uova a disposizione, avrò possibilità irrisorie di ottenere una gravidanza”.

In questi casi i numeri aiutano a chiarirsi le idee. “A 40 anni, per avere possibilità concrete di diventare madre, una donna deve mettere da parte almeno 20 uova, e per farlo deve fare almeno 3-4 prelievi ovocitari. Cosa che non ha molto senso da un punto di vista medico e di sicurezza per la paziente”, esemplifica Ubaldi.

Come funziona il prelievo

Ma come funziona questa tecnica? “Si inizia con una stimolazione ormonale, cercando di portare a maturazione più follicoli possibili. Poi si procede al prelievo ovocitario e, dopo qualche ora, le uova ‘mature’ (che hanno completato la prima divisione meiotica) verranno congelate”.  Il numero di ovociti da crioconservare dipenderà dall’età della donna. “Ecco perchè occorre essere molto chiari con le pazienti sulle possibilità di arrivare alla nascita di un bambino. L’informazione – ribadisce Ubaldi – deve essere rivolta alle ragazze giovani, prima dei 30 anni”.

Tra orologio biologico e scienza

La notizia dei progressi della medicina può rivelarsi un boomerang. Può sembrare strano che a dirlo sia uno specialista di fecondazione assistita, “ma la scienza può aiutare fino a un certo punto: è utile ribadire che i bambini vanno fatti prima possibile e nel modo più naturale possibile“, sottolinea Ubaldi. “Se però non si ha il compagno giusto, o non ci sono le condizioni per farlo, occorre prendere una decisione consapevole per tempo: o si attende” e ci si affida alla sorte, “oppure prima dei 30 anni si decide di mettere da parte gli ovociti, che potremo utilizzare una volta pronti. A quel punto si avrà  un’ottima probabilità di successo. Ecco, questa è l’informazione che deve essere data alle giovani”.

I costi e i Lea

Di che cifre parliamo? “La conservazione di ovociti – puntualizza Ubaldi – ha un costo che varia da 100 a 250 euro l’anno, mentre dalla visita, al monitoraggio, fino alla stimolazione e al prelievo le cifre oscillano di solito dai 3.000 ai 4.000 euro, compresi i farmaci per la stimolazione ovarica”.

Qualcosa, sul fronte dei costi, potrebbe cambiare. “Faccio parte del Gruppo ministeriale per la fecondazione assistita e stiamo cercando di far rientrare nei Lea (livelli essenziali di assistenza) la preservazione della fertilità per cause mediche: parliamo di donne che hanno una patologia (come l’endometriosi) ma non di tipo oncologico (in questo caso è già nei Lea). Inoltre nell’immediato futuro ci sarà la proposta da parte del Comitato tecnico di far rientrare fra le procedure rimborsabili anche la preservazione della fertilità per motivi sociali”.

Cosa succede se le uova non servono più

Ma che fine fanno gli ovociti, nel caso in cui la donna resti incita naturalmente? “Studi pubblicati in letteratura mostrano che circa il 75-80% delle donne che criopreservano gli ovociti in giovane età non li utilizzeranno: per loro è una sorta di assicurazione. Ebbene, una volta concluso il progetto genitoriale – dice Ubaldi – si può decidere di donare queste uova. In Italia nel 98% dei casi siamo costretti a far ricorso a banche estere di ovociti”.

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