Nella ricerca di armi contro Covid-19 molta attenzione si è concentrata sulla vitamina D. Una sostanza importante per il nostro organismo, perché è responsabile dell’assorbimento del calcio.
Viene prodotta attraverso l’assunzione di alcuni alimenti (ricordate l’olio di fegato di merluzzo?) e, soprattutto, l’esposizione ai raggi solari, che secondo un recente studio sarebbero un’arma capace di annientare il coronavirus.
Ma come è nata tutta questa attenzione per la ‘vitamina delle ossa’? Alcuni studi osservazionali hanno riscontrato bassi livelli di vitamina D tra pazienti con forme gravi di Covid-19, e questo ha incuriosito i ricercatori. Anche perché, fra i tanti ‘rimedi’ fai da te contro il virus pandemico, in questi mesi la vitamina D è stata molto gettonata.
Per verificare se quella tra bassi livelli di vitamina D e Covid-19 fosse una semplice associazione o un nesso causale, è stata realizzata una ricerca alla quale ha partecipato anche l’Università di Siena. Lo studio è pubblicato su ‘Plos Medicine’.
Dunque si tratta di un lavoro sottoposto a revisione, a differenza di molti degli studi annunciati in epoca Covid-19.
L’indagine, come ci ricorda il documento della direzione scientifica dell’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” sulle novità relative al virus causa di Covid-19, ha analizzato i livelli di incidenza della malattia in oltre 1,2 milioni di persone di origine europea in 11 Paesi.
Alcune di queste persone presentano varianti genetiche che risultano in livelli naturalmente più elevati di vitamina D. Ma, al contrario di quanto si poteva pensare, le persone con queste varianti non hanno mostrato un rischio inferiore per l’infezione da coronavirus, il ricovero in ospedale o forme di Covid-19 grave.
I dati della ricerca suggeriscono che aumentare i livelli di vitamina D in persone che ne sono carenti non ha apprezzabili effetti preventivi nei confronti di Covid-19.
Insomma, la vitamina D non previene l’infezione, né i suoi effetti peggiori.
