Attacco di cuore 4.0: fame d’aria, defibrillatori sui droni, smog

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Quando il cuore si ferma fuori dall’ospedale, 9 pazienti su 10 non ce la fanno e anche chi sopravvive a questo evento drammatico può riportare conseguenze neurologiche a lungo termine, quali alterazioni neuro-cognitive, fatigue, problemi emotivi, disturbo post-traumatico da stress.

Per questo è così importante prevenire l’arresto cardiaco e mettere in campo tutte le strategie possibili per approntare un soccorso il più veloce possibile, perché ogni minuto di ritardo, riduce del 10% le chance di sopravvivenza.

La prevalenza stimata di questa condizione in Europa è di 67-170 casi per 100 mila abitanti. Tre studi appena presentati al congresso della Società Europea di Cardiologia (Esc) portano materia di riflessione e importanti novità sull’argomento. Il tutto, sul filo conduttore dell’aria, da quella che respiriamo, a quella percorsa dai droni, fino alla ‘fame d’aria’, che può essere un importante sintomo predittivo, un giorno prima dell’evento.

Uno studio danese, effettuato sugli oltre 4.000 pazienti (età media 74 anni) del Danish Cardiac Arrest Registry e presentato dal dottor Filip Gnesin del North Zealand Hospital di Hillerød (Danimarca) rivela infatti che un paziente su 10 tra quelli vittime di un attacco di cuore aveva chiamato i servizi d’emergenza il giorno prima; la maggior parte lo aveva fatto per problemi respiratori (dispnea 59%), o per comparsa di stato confusionale (23%) perdita di coscienza (20%), dolore toracico (20%) o per presenza di un pallore importante (19%).

La ‘fame d’aria’, spesso associata a pallore, stato confusionale e perdita di coscienza, era dunque il sintomo più di frequente lamentato da questi pazienti il giorno prima dell’arresto, ma si è rivelato anche quello più sottovalutato dai servizi d’emergenza, soprattutto se confrontato con il dolore toracico. I pazienti con dispnea tra l’altro erano anche quelli con la maggior mortalità a 30 giorni (81%), rispetto a quelli con dolore toracico (47%).

Gli autori concludono dunque che i disturbi respiratori sono un sintomo decisamente sottostimato di un arresto cardiaco imminente, che andrebbe invece adeguatamente valorizzato dai servizi d’emergenza come sintomo premonitore.

Il pericolo nascosto nell’aria. Tra le varie strategie messe in atto per affrontare questa emergenza ci sono i corsi di rianimazione per i laici, la collocazione di defibrillatori automatici nei luoghi pubblici, una catena della sopravvivenza ben oliata. Ma non basta. Bisogna lavorare sulla prevenzione, individuando e cercando di mitigare gli eventuali fattori di rischio per il cuore. E uno di quelli ancora poco a fuoco da parte dell’opinione pubblica è l’inquinamento dell’aria.

Il rischio di arresto cardiaco fuori dall’ospedale aumenta quando salgono le concentrazioni degli inquinanti atmosferici (soprattutto di polveri sottili, come il PM2,5), come hanno ormai dimostrato numerosi studi internazionali. L’Epa (Environmental Protection Agency) americana considera accettabile una concentrazione massima giornaliera di PM 2,5 fino a 35 mcg/m3 e una media annuale 12 mcg/ m3; per l’Italia e l’Europa il valore massimo per la media annuale è 25 mcg/m3.

Il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico potrebbe dunque rappresentare uno strumento per valutare con maggior precisione il rischio individuale di arresto cardiaco extra-ospedaliero (nei soggetti a rischio) e per migliorare l’efficienza dei servizi medici d’emergenza.

Uno studio, presentato all’Esc da Francesca Romana Gentile, Ospedale San Matteo – Università di Pavia e condotto nel 2019 nel territorio di Pavia, Lodi, Cremona e Mantova (popolazione di circa 1,5 milioni di persone) è andato a ‘misurare’ il peso dell’inquinamento sulla salute del cuore.

E i risultati hanno evidenziato che l’esposizione all’aria inquinata può più che raddoppiare il rischio di arresto cardiaco nella popolazione generale. Il take home message è dunque che i servizi d’emergenza devono aspettarsi una maggior incidenza di arresto cardiaco nei giorni di aria più inquinata e dunque organizzarsi di conseguenza.

Il monitoraggio degli inquinanti inoltre (quelli considerati in questa ricerca, oltre al particolato, sono stati gli inquinanti gassosi come biossido d’azoto, monossido di carbonio, benzene, biossido di zolfo e ozono) potrebbe essere utile per prevedere un picco di arresti cardiaci in specifiche aree geografiche. E tutti infine, in particolare le persone a rischio, dovrebbero prendere coscienza del fatto che l’esposizione all’aria inquinata può avere effetti dannosi.

La salvezza dal cielo. E se nell’aria inquinata si nasconde un potenziale pericolo per il cuore, sempre dall’aria potrebbe arrivare anche la salvezza. È la scommessa di uno studio svedese, finanziato dalla Swedish Heart Lung Foundation, presentato da Sofia Schierbeck del Karolinska Hospital di Stoccolma al congresso dell’Esc.

Questa ricerca dimostra che i defibrillatori possono essere trasportati dai droni sul luogo di un arresto cardiaco fuori dall’ospedale, con un sensibile risparmio di tempo rispetto all’arrivo dell’ambulanza. Come visto, per ogni minuto di arresto cardiaco senza trattamento, la percentuale di sopravvivenza si riduce del 7-10% e in Svezia il tempo di risposta medio di un’ambulanza è di 11 minuti (media di 7-17).

Una rapida defibrillazione è critica per aumentare le chance di sopravvivenza in caso di arresto cardiaco e l’impiego dei droni potrebbe teoricamente ridurre i tempi della defibrillazione. Ma questo non è mai stato provato in condizioni real life. Cosa che ha cercato invece di fare questo studio svedese.

Durante l’estate del 2020, sono stati allestiti nella regione di Goteborg tre droni, coordinati con i servizi medici d’emergenza ed equipaggiati con defibrillatori automatici esterni. Su 12 casi di traporto del defibrillatore con il drone, 11 sono andati a buon fine, entro 9 metri dal punto segnalato; nel 64% dei casi il defibrillatore via drone è arrivato prima dell’ambulanza, in media di un paio di minuti (range 1,35-4,54 minuti).

Questo studio ha dunque dimostrato la fattibilità di questo approccio innovativo, che ha le potenzialità di tagliare i tempi di soccorso per i pazienti interessati da un arresto cardiaco fuori dall’ospedale.

Certo, il trasporto dei defibrillatori via drone può essere limitato o ostacolato da condizioni atmosferiche avverse o dalla presenza di eventuali no-fly zones. Ma in tutti gli altri casi, come visto, potrebbe aumentare le chance di sopravvivenza di questi pazienti. Gli autori prevedono dunque che, nell’arco di pochi anni, i droni saranno usati di routine per il trasporto di attrezzature mediche di emergenza, come appunto di defibrillatori automatici.

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