Dolore cronico, oltre 5 anni per una diagnosi

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Una spirale di sofferenze che causa problemi fisici, mentali e relazionali ma anche economici, con spese annue che in Italia superano i 4 mila euro a paziente. E un pesante impatto sulle donne. Il dolore cronico è stato riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità come uno dei maggiori problemi mondiali di salute pubblica in generale, in quanto interessa tutte le fasce di età, con una maggiore prevalenza nelle donne.

In Italia colpisce una persona su 5, il 21,7% della popolazione, e una persona su 4 ne soffre in media per 7 anni. Se il 90% dei casi è trattabile e curabile, oggi ben il 40% delle persone con dolore cronico non è a conoscenza delle cure disponibili. E soprattutto passano circa due anni tra l’esordio e il primo accesso medico e i tempi per ricevere una diagnosi corretta sono superiori ai cinque anni. Anni di sofferenza e incertezza.

Per migliorare i percorsi diagnostico-terapeutici dedicati al dolore cronico è stato presentato il “Manifesto sul dolore. Le proposte per una migliore gestione dei pazienti con dolore cronico”, in occasione del tavolo tecnico della regione Lazio organizzato da Fondazione Onda, Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere, realizzato con il contributo incondizionato di Sandoz.

Il documento è promosso da Aisd – Associazione Italiana Per lo Studio del Dolore, Cittadinanzattiva, Federdolore – Società Italiana dei Clinici del Dolore, Fondazione ISAL, Fondazione Onda, Siaarti – Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva e Simg – Società Italiana di Medicina Generale e delle cure primarie.

Manca a tutt’oggi una cultura condivisa sul dolore cronico e questo rappresenta il principale ostacolo nell’accesso tempestivo ai percorsi di diagnosi e cura”, commenta Francesca Merzagora, presidente Fondazione Onda. “Occasioni di confronto tra Istituzioni, comunità scientifica e società civile, come l’incontro odierno, rappresentano opportunità preziose e concrete per dare un impulso positivo nella costruzione di questa cultura e nel delineare le possibili strategie per rafforzare la rete territoriale di terapia del dolore. L’avvento della pandemia ha reso ancora più difficile la battaglia contro il dolore cronico per l’impatto sulla continuità delle cure nei pazienti diagnosticati e per le nuove diagnosi mancate. A ciò si aggiunge il dolore cronico sviluppato come sequela dell’infezione da Covid-19”.

Nonostante siano passati più di 10 anni dall’approvazione della Legge 38 che ha riconosciuto il dolore cronico come una patologia che necessita di una propria specifica rete di assistenza e cura, l’assistenza per le persone con dolore cronico risulta essere approssimativa e insoddisfacente: il 21% delle persone affette non sa a chi rivolgersi e il 33%, prima di giungere a un centro specializzato si sottopone a terapie inadeguate consultando inutilmente dai tre ai sette specialisti, con perdita di tempo e risorse.

In media i costi sociali ed economici pro-capite superano i 4 mila euro annui, che pesano sul Ssn con circa 1.400 euro l’anno e più di 3 mila euro direttamente sulle persone, legati in particolare alla perdita di produttività e di ore lavorative.

“È difficile comprendere a fondo cosa voglia dire dolore cronico”, afferma Silvia Natoli, professore associato in anestesia e rianimazione, Università Tor Vergata, Roma. “Non si tratta solo di dolore che duri più di un certo lasso di tempo – per convenzione, 12 settimane – né è il sintomo di una malattia incurabile. Il dolore cronico, ricorrente o persistente, è una condizione che genera un’alterazione dello stato di salute. Nonostante diverse azioni siano state intraprese dalle istituzioni affinché i soggetti affetti da dolore cronico siano curati in modo coordinato, continuativo e specialistico, come si addice ad ogni patologia cronica, la disciplina ‘terapia del dolore’ stenta ad essere compresa e riconosciuta a diversi livelli: dai pazienti, da molti colleghi medici e dalle istituzioni stesse. La ‘medicina del dolore’ è una disciplina che integra percorsi di diagnosi, di riabilitazione, di gestione personalizzata di terapie mediche e chirurgiche più o meno invasive. Essa, pertanto, ha bisogno di una rete che sia coordinata, promossa, indirizzata e monitorata per esprimerne al massimo le sue potenzialità”.

Il “Manifesto sul dolore” vuole promuovere azioni efficaci per migliorare la raccolta dei dati relativi al paziente con dolore cronico, rafforzare il network tra i clinici, definendo a livello nazionale percorsi di cura, assicurare un programma di formazione continua e aggiornata del personale medico e promuovere una “cultura” del dolore cronico, attraverso una corretta informazione sulla malattia e sulle effettive possibilità di curarla.

“Purtroppo, il dolore, nelle sue varie forme, tocca molte patologie ed è per questo che l’impegno per l’attuazione della Legge 38 deve riguardare una ampia platea di associazioni di pazienti, da quelle che si occupano di malattie reumatiche a quelle oncologiche, dalle cefalee alle patologie neurodegenerative o le complicanze del diabete”, conclude Teresa Petrangolini, Patient Advocacy Facilitator, Regione Lazio. “Inoltre, l’incidenza del dolore sulle donne amplia ancora di più l’attenzione sulla medicina di genere. La lotta al dolore non è una questione di nicchia ma un impegno corale per avere percorsi chiari, servizi accessibili, ascolto e informazioni diffuse e capillari per facilitare l’accesso alle cure. La Regione Lazio ha promosso la Sanità Partecipata proprio per dare spazio alla collaborazione tra istituzioni e associazioni dei pazienti. Il tema del dolore e della sua gestione deve stare dentro questa strategia partecipativa che punta a rendere concreta la centralità dei diritti, primo fra tutti quello a non soffrire“.

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