Tumori, novità per quelli dell’esofago e il linfoma mantellare

Sara Lonardi
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Novità ‘chemio-free’ per i tumori dell’esofago e speranze contro il linfoma mantellare dall’Asco di Chicago. I tumori dell’esofago, tra i più difficili da trattare, colpiscono spesso persone ai margini della società, che annegano la disperazione nell’alcol e nel fumo, i due principali fattori di rischio.

“Lottiamo continuamente – ricorda a Fortune Italia la professoressa Sara Lonardi, direttore dell’Oncologia 3 all’Istituto Oncologico Veneto Irccs di Padova – per liberare dallo stigma questi pazienti e negli anni qualcosa è cambiato”. Non per la prognosi purtroppo, che continua ad essere tra le peggiori di tutti i tumori (inferiore ad un anno dalla diagnosi), anche perché quelli dell’esofago vengono spesso diagnosticati in fase molto avanzata e questi, che sono pazienti dalle mille fragilità, non riescono a sopportare il peso di una chemioterapia troppo aggressiva.

“Per questo – afferma la Lonardi – è necessario trovare terapie più efficaci, senza appensantire la tollerabilità”. Lo studio CheckMate-648, presentato all’Asco di Chicago, ci ha provato, portando in prima linea di trattamento l’immunoterapia con nivolumab, associata alla chemioterapia standard o ad un altro immunoterapico (ipilimumab), in un gruppo di mille pazienti con carcinoma squamoso dell’esofago avanzato o metastatico e mai trattati in precedenza.

“L’immunoterapia in prima linea, rispetto alla sola chemioterapia, ha quasi raddoppiato la sopravvivenza globale di questi pazienti – spiega la Lonardi – in particolare, la sopravvivenza ad un anno nei pazienti con espressione tumorale di PD-L1 pari o superiore all’1%, è passata dal 37% dello standard di trattamento, al 58% con la combinazione immunoterapia-chemioterapia e al 57% con la duplice immunoterapia (nivolumab-ipilimumab). Sono risultati in grado di cambiare la pratica clinica del trattamento di questo tumore in fase avanzata. In più, il beneficio di questo approccio si prolunga per tutta la storia di malattia del paziente e in un gruppo di persone emerge un vantaggio di sopravvivenza a lungo termine, la cosiddetta ‘coda delle curve’. L’analisi dei risultati dello studio – prosegue Lonardi – evidenzia inoltre che il rischio di progressione a linee di terapia successive alla prima (PFS2) si riduce del 36% con la combinazione nivolumab-chemioterapia e del 26% con nivolumab-ipilimumab, rispetto alla chemioterapia standard. La duplice terapia con nivolumab-ipilimumab è il primo trattamento ‘chemio-free’ ad aver dimostrato un beneficio sul controllo di malattia e sulla sopravvivenza e può dunque rappresentare una valida alternativa per i più fragili che non tollerano la chemioterapia. Sono risultati molto importanti, per un tumore che non aveva visto novità di trattamento da vent’anni a questa parte”.

Un raggio di speranza per il linfoma mantellare. La forma ‘mantellare’ rappresenta circa il 6% di tutti i linfomi; colpisce più spesso i maschi dopo i 65 anni, una popolazione molto fragile che non sopporta una robusta chemioterapia o il trapianto di cellule ematopoietiche. La terapia di prima linea è ormai da tempo affidata dunque all’associazione chemio-immunoterapica bendamustina e rituximab, mentre per le forme refrattarie o che recidivano dopo questa terapia, si impiega l’ibrutinib, un inibitore della Bruton chinasi introdotto in terapia da 7-8 anni e che ha già rivoluzionato il trattamento di molti tumori del sangue.

Lo studio di fase 3 Shine, presentato all’Asco e in contemporanea pubblicato sul Nejm ha dimostrato che per questi pazienti c’è una possibilità terapeutica molto più efficace di quanto fatto finora. Nello studio 523 pazienti con linfoma mantellare sono stati assegnati alla terapia di prima linea classica (bendamustina-rituximab) da sola o con l’aggiunta dell’ibrutinib (un farmaco in compresse).

Il gruppo trattato con la ‘tripletta’ in prima linea, dopo un follow up mediano di 84,7 mesi, ha mostrato una sopravvivenza libera da progressione di malattia di 6,7 anni contro i 5,4 anni del gruppo trattato con l’associazione tradizionale bendamustina-rituximab.

L’aggiunta di ibrutinib in prima linea ha dunque garantito un guadagno di 2,3 anni, cioè un miglioramento del 50%. “È la più importante sopravvivenza libera da progressione di malattia mai registrata in questa popolazione di pazienti”, ha commentato il dottor Michael Wang, del M.D. Anderson Cancer Center (università del Texas) primo autore dello studio. L’aggiunta di ibrutinib alla chemio-immunoterapia standard nel trattamento di prima linea è dunque in grado di aumentare in modo significativo la sopravvivenza libera da progressione di malattia.

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