Ictus, il grande ‘buco’ dei centri specializzati

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Pazienti di serie A e di serie B, anche quando si tratta di cure per l’ictus. Sono ancora poche in Italia le Stroke Unit dove trovare tutte le terapie migliori per una patologia che colpisce oltre 100 mila italiani ogni anno: ne servirebbero 300 in tutto il Paese, ce ne sono solo 190 e per l’80% si trovano al Nord.

Risultato? Meno della metà delle vittime di ictus riceve cure adeguate e tempestive e meno del 40% viene trattato con la trombectomia intracranica, l’intervento più all’avanguardia per la riapertura dei vasi ostruiti, che però bisogna eseguire entro 16/24 ore dall’esordio clinico.

Lo denunciano gli esperti della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (Gise), riuniti a convegno nei giorni scorsi a Roma.

Ma andiamo per gradi: la trombectomia intracranica è una tecnica all’avanguardia, sicura e in grado di ridurre la disabilità residua dopo un ictus. Questo sistema ‘libera’ i vasi ostruiti attraverso una procedura percutanea, ed è  una valida alternativa alla trombolisi con farmaci anche perché ha una finestra di intervento più lunga, fino a 16/24 ore dalla comparsa dei sintomi in pazienti adeguatamente selezionati con studio di perfusione, contro le 4,5-9 ore al massimo della trombolisi endovenosa. Una differenza di tempo fondamentale per i pazienti. Purtroppo però, oggi, in Italia, vengono sottoposti all’intervento meno di 4 pazienti su dieci, fra coloro che ne avrebbero l’indicazione. E questo perché sono ancora troppo poche le Unità Neurovascolari dove è possibile utilizzare la trombectomia.

“L’ictus cerebrale rappresenta la prima causa di invalidità nel mondo, la seconda causa di demenza e la terza causa di mortalità nei paesi occidentali – spiega Giovanni Esposito, presidente Gise – In Italia si registrano ogni anno poco più di 100 mila casi di ictus, dei quali circa un terzo porta al decesso nell’arco di un anno e circa un terzo a invalidità seria o significativa: oggi quasi un milione di italiani convive con le conseguenze invalidanti di un ictus cerebrale, sempre più irreversibili e gravi all’aumentare del tempo trascorso prima di un intervento che elimini l’occlusione di un’arteria cerebrale. Questo evento, che interrompe il flusso di sangue a un’area più o meno vasta del cervello ed è causa di circa l’80% dei casi di ictus, può essere risolto con una trombolisi, ovvero con farmaci specifici che ‘sciolgano’ il coagulo, o con la trombectomia, un intervento di rivascolarizzazione che si esegue per via percutanea, attraverso l’inserimento di speciali cateteri per via femorale”.

Nella trombectomia il catetere viene fatto arrivare nel punto dove si è verificata l’occlusione così da rimuoverla meccanicamente. La procedura garantisce una riduzione significativa della disabilità residua dopo l’ictus. Il fatto di allungare la finestra temporale entro la quale intervenire, è “un vantaggio non da poco considerando che molti pazienti non vengono soccorsi in tempi brevi – puntualizza Eugenio Stabile, primario di cardiologia all’Ospedale San Carlo di Potenza – Purtroppo, però, in Italia è comunque difficile garantire la trombectomia ai tanti pazienti per i quali ve ne sarebbe indicazione perché colpiti da ictus della carotide interna o dell’arteria cerebrale media, che hanno una patologia più grave e con sequele di disabilità maggiori: in tutto il Paese solo il 37% dei pazienti candidabili a trombectomia intracranica viene sottoposto al trattamento endoarterioso. Questo dipende in buona parte dalla carenza di Stroke Unit”. Strutture distribuite a macchia di leopardo e per l’80% al Nord.

Insomma, ancora una volta è il codice fiscale a fare la differenza.  Ecco perché i due esperti Gise invitano a “potenziare la rete e consentire a tutti gli italiani, ovunque, di poter essere sottoposti a terapie tempestive e adeguate a limitare le devastanti conseguenze di un ictus”. Mentre l’Italia si prepara a costruire la sanità di domani con gli investimenti del Pnrr, questo deve essere un obiettivo irrinunciabile del prossimo futuro.

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