Certo non ci sono barriere fisiche a ‘proteggere’ le sue acque. E gli appassionati di immersioni avevano già notato l’improvviso arrivo di specie mai viste prime nelle sue acque. Ma il dato che emerge da un nuovo studio sul mar Mediterraneo è comunque di quelli che colpiscono: sono ben 188 i nuovi pesci arrivati in poco più di un secolo. Un’invasione legata a doppio filo al cambiamento climatico, ma anche a interventi dell’uomo sull’ambiente. E ricostruita, arrivo dopo arrivo, a partire dal 1896.
La ricerca, pubblicata dalla rivista ‘Global Change Biology’, è stata coordinata dall’Istituto per le risorse biologiche e biotecnologie marine del Cnr di Ancona. E ricostruisce la storia delle invasioni biologiche nel Mediterraneo. Un bacino che, secondo gli autori, oggi è riconosciuto come la regione marina più invasa al mondo.
“Lo studio dimostra come il fenomeno abbia avuto un’importante accelerazione a partire dagli anni ’90 e come le invasioni più recenti siano capaci delle più rapide e spettacolari espansioni geografiche”, spiega Ernesto Azzurro del Cnr-Irbim e coordinatore della ricerca.
“Da oltre un secolo, ricercatori e ricercatrici di tutti i Paesi mediterranei hanno documentato nella letteratura scientifica questo fenomeno, identificando 200 nuove specie ittiche e segnalando le loro catture e la loro progressiva espansione. Grazie alla revisione di centinaia di questi articoli e alla georeferenziazione di migliaia di osservazioni, abbiamo potuto ricostruire la progressiva invasione nel Mediterraneo”.
Un fenomeno che ha cambiato il volto di questo mare, dove ormai i barracuda sono di casa. Ma da dove arrivano gli ‘invasori’? Sono due gli ingressi, secondo Azzurro: “Le specie del Mar Rosso, entrate dal canale di Suez (inaugurato nel 1869), sono le più rappresentate e problematiche. Ci sono, tuttavia, altri importanti vettori come il trasporto navale e il rilascio da acquari. I ricercatori hanno considerato anche la provenienza atlantica tramite lo stretto di Gibilterra”.
Quali sono gli effetti ambientali e socio-economici di queste ‘migrazioni ittiche’? “Alcune di queste specie costituiscono nuove risorse per la pesca, ben adattate a climi tropicali e già utilizzate nei settori più orientali del Mediterraneo”, spiega il ricercatore Cnr-Irbim.
“Allo stesso tempo, molti ‘invasori’ provocano il deterioramento degli habitat naturali, riducendo drasticamente la biodiversità locale ed entrando in competizione con specie native, endemiche e più vulnerabili. Il ritmo della colonizzazione è così rapido da aver già cambiato l’identità faunistica del nostro mare; pertanto ricostruire la storia del fenomeno permette di capire meglio la trasformazione in atto e fornisce un esempio emblematico di globalizzazione biotica negli ambienti marini dell’intero pianeta”.