Squid Game e la competizione svelata in due giochi

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Squid Game ce l’ha insegnato. Progressivamente, nella competizione, si possono creare alleanze, sfide interne, momenti di grande solitudine che si alternano a fasi di personalizzazione estrema. In qualche modo, con i suoi eccessi e i suoi contributi ad una sceneggiatura fin troppo ardita e a tratti violenta, la serie coreana rappresenta una sorta di metafora forzata della competizione per giungere a un riconoscimento economico, quasi come può accadere nel mondo del lavoro e più in generale nella vita.

Da un lato ci sono gli interessi del singolo, dall’altro i bisogni della comunità che deve remare verso un unico obiettivo: a volte questi due aspetti solo apparentemente antitetici nel mondo della competizione possono risultare convergenti, con soddisfazione del soggetto e della realtà in cui lavora. Ma cosa succede quando invece gli interessi del singolo sono superiori rispetto a quelli della comunità in cui opera? E quanto potrebbe invece essere utile, sempre e comunque, mettere da parte l’aspirazione soggettiva per far dominare l’interesse generale?

A spiegare questi aspetti, come accade per Squid Game, può essere un gioco. O meglio una vera e propria teoria ludica applicata alla realtà sociale, capace di spiegare perché il comportamento disinteressato del singolo per il bene comune non vada sempre dato per scontato, ma possa comunque essere accettabile far prevalere il valore comunitario rispetto a quello personale.

A far luce su questi aspetti è un’originale ricerca di Mohammad Salahshour del Max Planck Institute, apparsa su Plos Computational Biology. Lo studio offre una serie di informazioni per l’organizzazione gerarchica, tali da non schiacciare il valore dell’intuizione e della personalità nei modelli troppo stretti ma anche da far percepire a tutti quanto può essere utile il lavoro in team. Anche per il singolo che vuole emergere.

Proviamo a mettere ordine. All’origine del percorso c’è la forza della morale. Che in qualche modo ci spinge a mettere da parte l’interesse personale per il gruppo, sia al lavoro che nel tempo libero. Insomma, puntiamo molto sul fare squadra, considerando sia l’aspetto familiare del supporto reciproco, in una sorta di percorso evoluzionistico destinato a salvaguardare i geni della parentela, sia l’importanza del sostegno vicendevole come strategia di sopravvivenza. Ma per superare queste realtà, i giochi possono aiutarci.

Magari a capire come comportarci di fronte a proposte che promuovono un comportamento di sacrificio, in contrasto ad altre che invece sembrano dare via libera all’egoismo. L’esperto ha accoppiato due giochi: il primo è il classico dilemma del prigioniero, in cui due giocatori devono decidere se cooperare per una piccola ricompensa o tradirsi per una ricompensa molto più grande.

Ovviamente è ammesso che non ci sia un atteggiamento egoistico diffuso, altrimenti tutti perderebbero, così come se tutti si sacrificassero per gli altri. Ma se pochi sono egoisti, possono sperare di star meglio rispetto a chi sostiene l’equipe. Il secondo gioco, in area professionale, si concentra su decisioni tipiche all’interno dei gruppi, come un’attività di coordinamento, la distribuzione delle risorse, la scelta di un leader o la risoluzione dei conflitti.

Se nel dilemma del prigioniero la cooperazione non ripaga, purtroppo se si lavora in modo egoistico non si riesce ad avere successo nel secondo gioco, quello di comunità. Considerando invece insieme i due giochi, la cooperazione nel dilemma del prigioniero può ripagare perché il guadagno nel secondo gioco compensa più che la sconfitta nella prima partita.

Siamo una sorta di misto tra richieste di rispondere ai bisogni personali e desiderio di aiutare gli altri. Secondo l’esperto, però, solo accoppiando i due giochi si può davvero capire come sia possibile regolare l’altruismo e la disponibilità verso gli altri senza chiudersi nell’egoismo più bieco.

L’obiettivo dovrebbe essere una sorta di “stato morale”, con gli individui che coordinano meglio la loro attività. così può nascere la cooperazione e si creano le condizioni operative per il lavoro di gruppo: se l’interesse personale e la scelta del singolo procedono verso una combinazione altruistica, l’organizzazione lavorerà meglio. E la competizione? Giocare (o meglio provare), per credere.

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