Rsa: in quelle italiane mancano infermieri, medici e operatori

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Nelle Rsa italiane manca il 21,7% degli infermieri, il 13% dei medici e il 10,8% degli operatori sociosanitari. Una fotografia preoccupante, quella che emerge dal 5° Rapporto Osservatorio Long Term Care Cergas SDA Bocconi – Essity.

Il documento mette in luce da una parte la carenza delle figure professionali, dall’altra come la crisi di queste figure si stia riflettendo direttamente sulle aziende e sui servizi. A farne le spese, ovviamente, gli anziani. Ma anche i dipendenti delle Rsa, che vedono aumentare il carico di lavoro.

La fotografia parte da un dato: nel 2020 le persone over 65 non autosufficienti erano 3.935.982. Un numero importante, che lascia ben comprendere quanto sia necessario rendere il settore dell’assistenza agli anziani più efficiente.

Tra le cause della carenza di personale c’è, tra le altre, la competizione tra settore sanitario e sociosanitario. Il 61,7% degli infermieri ha infatti lasciato le Rsa per nuovi contratti di lavoro nel comparto sanitario ospedaliero, con conseguenze sulla qualità del servizio assistenziale e sulla crescita dell’intero settore.

Come si evince dal Rapporto, la crisi del personale impatta direttamente sulle aziende. Per il 90% di chi lavora nelle Rsa, i costi del personale sono aumentati nel 2022. Mentre il 74% ha dichiarato che il burn out dei dipendenti è cresciuto e che la qualità dei servizi è peggiorata proprio in virtù della carenza numerica.

A complicare il quadro, Cergas-Bocconi e Essity hanno messo a confronto il modello di residenzialità per anziani in 12 regioni italiane. Quel che è emerso è che esiste un’estrema eterogeneità, che deriva principalmente dalla modalità con cui le regioni hanno normato e fissato gli standard per i servizi residenziali.

Rsa non vuol dire la stessa cosa in tutte le regioni. Le diverse normative hanno prodotto standard assistenziali, tariffe e criteri di classificazione degli ospiti diversi, con impatti inevitabilmente differenti sull’operatività dei gestori e sulla loro capacità di innovare e di rispondere ai bisogni della cittadinanza.

Tuttavia, per la prima volta il Rapporto evidenzia anche che dal confronto con le normative regionali risulta che le aziende hanno mediamente dotazioni di organico maggiore di quanto richiesto dalle norme: il campione analizzato mostra infatti una media di un infermiere ogni 5,1 operatori sanitari (dato 2021), più alto rispetto al rapporto medio di 5,6 definito dagli standard regionali.

“I dati mostrano che affrontare la crisi del personale è possibile”, ha affermato Elisabetta Notarnicola, docente presso la Sda Bocconi School of Management e coordinatrice del Rapporto. “Ma serve un investimento in una duplice direzione: ripensare i servizi in funzione anche delle nuove necessità dei professionisti e operatori e investire ancora di più sulle persone. Negli anni le Regioni hanno prodotto regole e norme eterogenee, che rischiano di trasformarsi in disordine e complessità se non si trovano risposte di policy univoche. Lo sforzo delle aziende nel superare la crisi è notevole, ma per un reale cambiamento è necessario che le singole risposte siano coordinate in una visione d’insieme più ampia”.

“Come per tutti i settori di servizi alla persona – ha detto l’amministratore delegato Essity Italia Massimo Minaudo – anche il Long Term Care non potrebbe esistere senza i professionisti che producono e promuovono l’assistenza e la qualità della cura. In un sistema che si basa fortemente su fiducia, competenze e qualità del lavoro, il Rapporto ci permette di analizzare lo stato di salute del settore assistenziale, fornendoci indicazioni preziose sulle sue reali necessità. Il bisogno di unitarietà per superare la molteplice interpretazione degli standard normativi è certamente il dato più eloquente che dimostra come il settore Long Term Care necessiti di un’azione di coordinamento mirata, per rispondere in maniera sempre più efficacie alle esigenze dei soggetti non autosufficienti”.

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