Telemedicina, verso la Piattaforma nazionale

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L’accordo da 250 milioni di euro per l’affidamento in concessione della “Progettazione, realizzazione e gestione dei Servizi abilitanti della Piattaforma nazionale di Telemedicina Pnrr” è l’ultimo passo per raggiungere la nuova sanità territoriale di cui l’Italia si è resa conto di aver bisogno a seguito della pandemia.

Ma quanto siglato tra Agenas, Raggruppamento Temporaneo di Impresa (RTI) Engineering Ingegneria Informatica S.p.A. e Almaviva S.p.A non è la panacea che porterà a una telemedicina per tutti ugualmente accessibile. Occorre che alla tecnologia si accompagni una revisione dei processi organizzativi delle professioni sanitarie. Pena di cadere nuovamente nelle incongruenze che ancora scontiamo con il Fascicolo sanitario elettronico.

Parola del direttore del Centro nazionale per la Telemedicina e le nuove tecnologie assistenziali, Francesco Gabbrielli, raggiunto da Fortune Italia per un’analisi della situazione, proprio alla luce dell’accordo a valere sulla missione 6 del Pnrr, componente 1 subinvestimento 1.2.3 “Telemedicina”.

Dottor Gabbrielli, cosa pensa di questo nuovo tassello per la telemedicina italiana?

Premettendo che non mi sono noti i dettagli peculiari dell’accordo, posso condividere l’idea iniziale relativa alla piattaforma. L’obiettivo era di realizzare una piattaforma nazionale per servizi software. Tengo a evidenziare questo aspetto, perché non si tratta di una piattaforma di telemedicina. Diversamente, è una piattaforma di software per l’erogazione di alcune prestazioni di telemedicina, che sono quelle previste dall’accordo Stato-Regioni del dicembre 2020 (televisita, teleconsulenza, teleassistenza, teleconsulto, telemonitoraggio).

Concettualmente, deve servire a due scopi. Primo, facilitare l’attivazione di queste prestazioni di telemedicina attraverso la semplificazione dell’utilizzo dei software applicativi da parte di chi eroga i servizi, cioè da parte dei sanitari. Secondo, far sì che i dati che servono agli operatori per eseguire le prestazioni di telemedicina siano facilmente richiamabili o dal Fascicolo sanitario elettronico (Fse) o da altri repository presenti nelle strutture sanitarie. E che i dati generati dalla prestazione possano essere convogliati in un’unita banca dati nazionale che possa servire per una migliore valutazione sanitaria da parte delle istituzioni nonché per scopi di ricerca.

Che ruolo hanno le istituzioni nella realizzazione di questo ambizioso progetto, che sarà reso possibile grazie ai fondi previsti dal Pnrr?

Agenas ha il ruolo di controllare le attività per conto del ministero della Salute. Sono coinvolti anche il dipartimento dell’Innovazione tecnologica e il ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef), perché questo progetto si intreccia con quello del Fse, gestito dal Mef.

Mi permetta una variazione sul tema: sbaglio o il problema del limitato funzionamento del Fse è proprio il fatto che esso sia stato progettato per fini amministrativi di rendicontazione delle prestazioni e non per favorire l’accesso ai dati sanitari da parte dei medici e dei cittadini?

È così. Uno dei punti chiave che determinerà in futuro il successo della piattaforma dedicata ai servizi di telemedicina sarà la sua capacità di essere davvero utile all’attività clinica, e di interagire con un Fse concepito in modo diverso. Che attualmente non è utile all’attività clinica.

Il ministro Schillaci ieri ha dichiarato che “la piattaforma nazionale di telemedicina ci permetterà di vincere la sfida per il superamento delle diseguaglianze nell’offerta delle prestazioni e dell’assistenza tra le diverse aree territoriali. Grazie alla piattaforma, i professionisti sanitari potranno disporre di nuovi strumenti validati per operare efficacemente in ogni processo individuale e multi-disciplinare e allo stesso tempo verrà anche migliorata l’accessibilità dei pazienti alle cure e alle prestazioni”. Come si concilia una piattaforma nazionale con l’autonomia differenziata delle regioni?

Bisogna ragionare su due piani differenti. A livello teorico-concettuale, ciò che occorre più che una piattaforma unica è l’interoperabilità dei dati. Il risultato è utile se i dati sono interoperabili anche se le piattaforme sono tante e diverse tra loro. Una piattaforma unica può agevolare l’utilizzo dei dati da parte delle istituzioni centrali e aiutare anche le Regioni più in difficoltà. Viceversa, le Regioni già più forti sul piano della digitalizzazione – ad esempio, Veneto, Toscana, Emilia-Romagna, Piemonte – hanno già una piattaforma molto evoluta e non avranno grande interesse a confluire in quella nazionale.

Ciò di cui abbiamo bisogno non è un unico luogo in cui mettere i dati sanitari, ma che essi dialoghino tra loro. Uno dei punti più rilevanti e auspicabili è che questo sistema venga costruito con una continua interrelazione con le professioni sanitarie. Altrimenti si rischia di cadere nelle stesse incongruenze e difficoltà incontrate con il Fse.

Possiamo fare una previsione? Riusciremo ad arrivare a servizi di telemedicina omogenei sul territorio, quali e in che tempi?

I primi saranno quelli più semplici, che già vediamo in diverse realtà: televisita e teleconsulto. Ci vorrà ancora molto tempo perché si arrivi a farlo bene dappertutto.
Il problema non è la tecnologia. La piattaforma può anche essere la migliore al mondo, ma non sarà essa stessa a creare servizi validi. Bisogna unire la tecnologia a una seria revisione dei processi di lavoro. I professionisti sanitari e i tecnici devono saper collocare la giusta tecnologia all’interno di processi di lavoro che devono essere ri-disegnati e condivisi. Per avere una telemedicina uniforme sul territorio, il nodo da superare non è tecnologico, ma organizzativo.

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