Sullo sfondo o in primo piano, la psicologia del selfie

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Una spiaggia assolata, con le onde che si rifrangono lentamente creando un impatto cromatico unico. La montagna con il chiaroscuro delle ombre che si inseguono sui versanti. Quante volte abbiamo apprezzato panorami e visioni che ci hanno trascinato lontano, proponendoci un viaggio con la fantasia in un mondo di immagini. E quante volte, invece, ci siamo trovati “spizzati” nel vedere che di fronte a scenari da lasciare immacolati si ritrova in primo piano l’amico che, con maestria, riesce a proporsi in primo piano.

Se avete storto il naso per una possibile “sovraesposizione” del singolo che va a coprire l’immagine di sfondo, sappiate che esiste una vera e propria “psicologia del selfie” che va ben oltre l’assoluta attenzione all’immagine di sé o al desiderio di proporsi, per sfociare in vere e proprie percezioni soggettive del momento che si vive.

Così il bisogno di mettersi in prima fila davanti ad un panorama unico sarebbe da collegare al bisogno di ricordare il significato più intenso di quanto sta accadendo nella vita del soggetto. Quando invece si sceglie di cogliere la pienezza della natura o comunque lo sfondo delle nevi immacolate o del mare azzurro si va in cerca dell’esperienza “fisica” e quindi non ci sarebbe bisogno di proporsi come soggetto attivo nell’immagine. Come a dire che allungare il braccio per trovarsi in primo piano non sarebbe solamente questione di vanità o comunque di mettersi in mostra. Ma si tratterebbe piuttosto di un vero e proprio bisogno della psiche in cerca di fissare momenti e percezioni che non vanno perduti.

A proporre questa sorta di “fenomenologia del selfie”, con ampie investigazioni nella sfera psicologica che diventa “padrona” del bisogno di ritrovarsi in un’immagine per avere in mente il momento che si è vissuto ed immortalarlo ben oltre l’ambiente esterno è un’originale ricerca coordinata da Zachary Niese dell’Università di Tubinga e Lisa Libby, dell’Università Statale dell’Ohio.

Secondo gli esperti, che hanno pubblicato la ricerca su Social Psychological and Personality Science, occorre quindi eliminare l’idea che chi posta su Instagram proprie immagini in primo piano faccia questo solo per vanità.

Il selfie non sarebbe solamente un fattore di promozione del proprio io, ma piuttosto un modo per poter riportare alla mente, e soprattutto nei meandri della psiche, un momento vissuto intensamente. La ricerca è partita dai risultati di sei diverse analisi su oltre 2.000 persone, mirate proprio a valutare quanto conta la fotografia personale per il singolo: chi ha valutato l’evento importante per sé stesso aveva maggiore possibilità di vedersi all’interno dell’immagine, in un primo piano che tendeva a coprire il fondo.

Come se non bastasse, quando l’immagine postata sui social ha visto la presenza della persona, ovvero si trattava di un selfie, l’impatto è stato considerato maggiore sul fronte psicologico, con una rimembranza profonda dell’evento vissuto. Quando invece lo “scattante” non era presente nell’immagine della natura, il protagonista assente tendeva a riconoscere il valore dell’immagine per il suo aspetto esperienziale fisico e non intimo.

Prima di parlare di vanità o ego preponderante, quando vediamo selfie più o meno giustificati su Instagram o comunque nel mondo social, non dimentichiamo quindi quanto la sfera personale potrebbe essere impattata da questa situazione. E proviamo a capire, andando oltre l’emotività e il giudizio.

Per qualcuno, essere presente significa davvero saper trarre il gusto del momento che si è vissuto e riviverlo intensamente, anche se solo in modo virtuale. Non giudichiamo, quindi. Il selfie, a volte, può nascondere segreti e sensazioni intime per la psiche che non vanno sottovalutate.

Anche in senso medico, peraltro, la condivisione social potrebbe essere d’aiuto. Basti pensare in questo senso all’esperienza, ormai di qualche anno fa, che ha preso in esame persone impegnate a perdere peso, dopo un intervento di chirurgia bariatrica o solo un approccio dietetico-comportamentale.

I partecipanti all’analisi sono stati seguiti per quattro anni: condividere successi e battute d’arresto sui social media li ha aiutati a rimanere impegnati, come se condividendo si potessero meglio motivare comportamenti finalizzati alla creazione di una nuova identità psicologica, più forte e in grado di raggiungere i propri obiettivi. Come a dire che il selfie, se “giusto”, diventa uno strumento di condivisione di intimità psicologiche che vanno ben oltre l’immagine.

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