La partita del biotech italiano

Covid farmaco biotech
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Il lockdown, gli investimenti, la ripartenza: di biotech parla Riccardo Palmisano, presidente di Assobiotec-Federchimica. La versione originale di questo articolo, a firma di Carlo Buonamico, è disponibile sul numero di Fortune Italia di novembre 2020.

 

Può il biotech italiano essere la risposta all’emergenza Coronavirus e aprire la strada per una ripartenza sostenibile? E cosa serve alle aziende di questo settore per riuscire in questo intento? Se stessimo partecipando a un quiz, potremmo dire che si tratta di domande da un milione di dollari. Nella realtà non si tratta di tirare a caso per dare una risposta e paradossalmente il milione di dollari non sarebbe sufficiente. Esistono proposte concrete che permettono di rispondere a questi interrogativi in modo positivo. Per capire di che si tratta ci siamo fatti guidare da Riccardo Palmisano, presidente di Assobiotec-Federchimica, l’associazione che raggruppa circa 130 aziende e parchi scientifici del biotech italiano, declinato in diversi ambiti di applicazione, dalla salute all’agricoltura, all’ambiente ai processi industriali.

 

Biotech e lockdown

 

Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di capire in che stato si trovano le aziende biotecnologiche italiane a valle del lockdown e come hanno reagito alle sollecitazioni dei mesi più duri dell’emergenza. “Le imprese biotech, in particolare quelle operanti nel comparto della salute, furono inserite fin da subito tra le filiere produttive essenziali per il Paese e per questo non si sono mai fermate”, ricorda Palmisano. Non senza problematiche da risolvere, come la gestione organizzativa dello smart working totale per tutti gli addetti che non lavoravano sulle linee produttive o all’interno dei laboratori di ricerca. Di contro, però “siamo stati avvantaggiati, se così si può dire, per quanto riguarda l’adozione delle misure di sicurezza imposte dai vari Dpcm, giacché l’ambiente di ricerca e soprattutto di produzione in Gmp (good manufacturing practice) specie in ambito bio-farmaceutico, prevede già una serie di accorgimenti – mascherine, camici… – per rispettare le norme di buona fabbricazione dei medicinali che impongono, ad esempio, la costante sanificazione degli ambienti produttivi, arrivando anche alla sterilità di interi reparti”.

 

Diversa è stata la situazione in cui si sono trovate le aziende che si occupano anche di ricerca clinica o di produzione di terapie ad essa destinate. L’impegno della rete ospedaliera internazionale nel fronteggiare l’emergenza Covid, infatti, ha determinato “un fortissimo rallentamento delle sperimentazioni cliniche dei nuovi farmaci”, che avvengono appunto negli ospedali. Di riflesso ne hanno risentito anche le imprese che, a monte delle sperimentazioni, forniscono tutto ciò che serve per realizzarle. Viceversa, osserva Palmisano, “le realtà impegnate nello sviluppo di vaccini o di farmaci per la terapia dell’infezione da Covid-19 hanno beneficiato di un fast-track per le procedure autorizzative delle sperimentazioni cliniche, grazie all’impegno dell’Agenzia italiana del Farmaco (Aifa) che ha lavorato senza sosta. Ancora, le imprese impegnate nella diagnostica hanno vissuto e stanno vivendo un periodo di superlavoro”.

 

Investimenti e partnership pubblico-privato

 

Dalle pennellate con cui il presidente Palmisano dipinge lo stato in cui vertono le aziende che rappresenta si comprende che la situazione varia molto a seconda della singola realtà industriale. Un sondaggio effettuato ad aprile presso imprese biotech presenti in Italia ha indagato quali azioni istituzionali fossero necessarie per un rilancio post-emergenza. Da un lato le realtà a capitale italiano vedono la necessità di un piano di lungo periodo per ricerca e innovazione e l’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo. Richieste che chi frequenta il modo italiano del biotech sente riecheggiare da almeno due decenni. “Una grande verità”, commenta il presidente, facendo presente però che chi lavora nella ricerca deve essere ottimista per natura. Per questo, “dobbiamo fare tesoro di quanto ci ha insegnato la pandemia e trarre vantaggio da un possibile inizio di rivoluzione del sistema, che non si sarebbe potuto avere in condizioni di “normalità”. Abbiamo capito che non si può disgiungere la salute dell’uomo da quella del Pianeta”. Che, in pratica, significa trovare il modo di rendere sostenibili le attività antropiche. Ma c’è di più. “Credo sia più che evidente a tutti che l’investimento in ricerca e innovazione non è un nice to have, perché poi al momento del bisogno si scopre che se questa ricerca e questa innovazione non si è fatta, non si può improvvisare e si rimane al palo. Perché siamo stati pronti nella diagnostica e nei vaccini? Perché da anni alcune nostre aziende hanno investito in questo settore. Viceversa, sono pochissime le realtà che possiamo vantare nel campo degli anticorpi monoclonali perché non è mai stato un ambito a cui abbiamo guardato con lungimiranza”, evidenzia Palmisano. Senza dimenticare l’imprescindibilità della collaborazione pubblico-privata di cui il periodo dal quale siamo appena usciti, il lockdown, ha dimostrato l’importanza e il valore per tutti, a partire dal paziente.

 

Attrazione degli investimenti: tra comitati etici e Hta

 

Le aziende biotecnologiche italiane potrebbero beneficiare anche di maggiori investimenti da parte delle aziende farmaceutiche multinazionali: il numero di studi clinici potrebbero essere molti di più in Italia, ma vengono ostacolati, rileva Palmisano, “dalla lentezza e dall’eterogeneità di comportamento dei comitati etici” che si esprimono, tra l’altro, sui protocolli di sperimentazione, sull’idoneità degli sperimentatori, sulle strutture e sui metodi e documenti da impiegare nella sperimentazione. Vi è poi il nodo dei tempi lunghi rispetto a ciò che avviene in altri Paesi per l’approvazione dei protocolli di sperimentazione clinica di nuovi medicinali. L’Aifa per parte sua, negli ultimi anni, riconosce il presidente di Assobiotec, “ha migliorato enormemente il modo di relazionarsi con le aziende che devono condurre i trial clinici”. Ma è deputata anche a molte altre attività come ad esempio l’ispezione e l’approvazione degli impianti produttivi di chi produce i farmaci. Ed è “evidentemente sottodimensionata in termini di organico. Questo Paese dovrebbe senz’altro investire per dare all’Agenzia più risorse umane, e soprattutto qualificate in ambito di health technology assessment. Oggi i farmaci innovativi di Terapia Avanzata (Atmp’s), per esempio, sono una decina, ma nell’arco di 2-3 anni diventeranno 50 e sarà necessario poterne valutare il reale valore sanitario, non solo terapeutico, per poter garantire l’accesso più equo possibile al maggior numero di pazienti”.

 

Il position paper di Assobiotec per la ripartenza

 

La praticità che da sempre connota l’operato di Assobiotec si concretizza anche in questo frangente. Il 9 novembre, sarà presentato un position paper per rilanciare il settore e anche l’economia italiana. “Con questo documento rafforzeremo il messaggio circa la necessità di rendere l’Italia un Paese più accogliente per le biotecnologie in tutte le sue applicazioni, con particolare riferimento alla salute e alla bioeconomia – che abbraccia l’agroalimentare e l’ambiente – collegandosi ai temi del new green deal e del farm-to-fork (dal campo alla tavola)”, spiega Palmisano. Non mancheranno proposte concrete, come la strutturazione di un vero sistema di trasferimento tecnologico dell’innovazione, che necessita di competenze specifiche e fondi a disposizione per riuscire a mettere in contatto la ricerca con gli investitori. Del resto, se si vuole dare una scossa all’economia italiana, aggiunge il presidente di Assobiotec, “dobbiamo agire innanzitutto sulle tecnologie abilitanti: sul digitale, sull’information technology e sull’innovazione che guarda al futuro, come è quella biotech”. Certo è che il Recovery fund che, detto all’italiana ‘fondo per la ripresa’ permette di capire meglio quale è il suo reale scopo, porterà in Italia diversi miliardi di euro. Il problema è capire come usarli bene altrimenti come ha recentemente detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen “anche un bazooka si trasforma in una pistola ad acqua”. Quanto il comparto biotech vorrebbe fosse stanziato per il suo rilancio? “Tutto ciò che serve a dare attuazione a una serie di proposte per costruire un ecosistema che sia in grado di valorizzare ricerca e innovazione in una prospettiva di medio, lungo termine; che metta in luce le aree più competitive del Paese, sostenga le imprese nella crescita e dia supporto a chiunque voglia investire in ricerca e produzione in Italia, che promuova la creazione di valore attraverso il trasferimento della conoscenza dalla ricerca all’impresa”, risponde Palmisano.

 

Parola d’ordine sostenibilità

 

Cifre importanti che rappresentano gli investimenti necessari a innescare un processo virtuoso di sostenibilità del settore dell’innovazione biotecnologica tricolore. “Se si investe bene, in modo mirato sulle realtà davvero competitive e con criteri oggettivi, anche il settore pubblico può generare ricchezza. Una ricchezza che torna e può essere reinvestita. Ne è un esempio la Francia: gli investimenti in startup biotecnologiche innovative hanno generato Pil. Si tratta di mettere a punto anche da noi un sistema di governance virtuoso che permetta di investire denaro pubblico che attiri altri fondi privati in modo da generare un volano economico sostenibile che si autoalimenta”, rileva il presidente di Assobiotec. Un tema, quello della sostenibilità, che interessa molto il settore della salute e dell’accesso al farmaco. Anche nell’ottica di equità d’accesso alle cure. “Rendere sostenibile la farmaceutica è possibile. Ma bisogna operare una vera valutazione dell’innovazione tramite un health technology assessment orizzontale e non verticale per silos. È un progetto a cui la direzione generale per la Programmazione del ministero della Salute sta lavorando da anni, fin da quando il ministero era guidato da Beatrice Lorenzin. Per mettere in luce le vere sinergie, l’ottimizzazione dei processi e il miglioramento dell’outcome sanitario e dei costi della sanità e dei riflessi sociali ad essa collegati, però, è necessario guardare lungo un periodo di programmazione di 5-10 anni”. Tempi che ancora non collimano con le prassi valutative dell’operato delle massime cariche della sanità locale, di nomina politica. Ma la sostenibilità della sanità passa anche da un altro fattore: “la digitalizzazione del Paese. Riuscire a calcolare i costi diretti e indiretti di un approccio sanitario che include sia i farmaci che tutti gli atti medici ad esso correlati, ma anche i risparmi derivanti dalle ospedalizzazioni evitate o dalle giornate lavorative non perdute è un lavoro assai complesso che richiede riuscire a estrarre le informazioni dall’enorme mole di dati che riguardano i singoli cittadini-pazienti. E se i dati non dialogano tra loro tutto ciò è ingestibile”, evidenzia Palmisano. Nonostante tutto, l’occasione che ci si presenta oggi è irripetibile: possiamo finalmente e realmente imprimere una svolta al modo di concepire la sanità, al modo di fare innovazione e alla sua valutazione. Non possiamo non cogliere l’attimo. E l’enorme disponibilità di risorse economiche che avremo a disposizione ci permetterà di mettere in atto tutto quello che non è mai stato fatto in passato. E molto di più.

 

La versione originale di questo articolo è disponibile sul numero di Fortune Italia di novembre 2020. Ci si può abbonare al magazine mensile di Fortune Italia a questo link: potrete scegliere tra la versione cartacea, quella digitale oppure entrambe. Qui invece si possono acquistare i singoli numeri della rivista in versione digitale.

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