Vaccini, fare il test sierologico (prima o dopo) è utile?

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Fare un test sierologico Covid, prima e dopo la vaccinazione, è davvero utile? A rispondere sono i medici anti-bufale di Dottoremaeveroche.it, il portale contro le fake news della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici), in una scheda firmata da Roberta Villa, giornalista e divulgatrice laureata in medicina. Ebbene, la risposta è no. Anche se, dobbiamo dirlo, non c’è unanimità fra gli specialisti. E alcuni esperti la pensano in modo diverso.

Ebbene, secondo i dottori anti-bufale la circolare del ministero della Salute sulle Certificazioni di esenzione alla vaccinazione anti Covid-19 non lascia dubbi: “Si ribadisce che l’esecuzione di test sierologici, volti a individuare la risposta anticorpale nei confronti del virus, non è raccomandata ai fini del processo decisionale vaccinale; per tale motivo la presenza di un titolo anticorpale non può di per sé essere considerata, al momento, alternativa al completamento del ciclo vaccinale”.

Ma in cosa consiste un test sierologico? “L’esame sierologico cerca nel sangue la presenza di anticorpi contro il virus: questi possono essere di tipo IgM, i primi a essere prodotti, ma anche a sparire; IgG, quelli più efficaci, che restano nel tempo; IgA, che forniscono una barriera a livello delle mucose.
Anche in relazione al loro bersaglio gli anticorpi non sono tutti uguali. Non esistono infatti anticorpi rivolti contro il virus in toto, ma solo verso le sue singole proteine. In genere nei test si cercano gli anticorpi anti-S, cioè anti-spike o anti-RBD (acronimo per “receptor-binding domain”, “dominio che lega il recettore”, dove per “dominio” si intende la parte della proteina spike con cui il virus si attacca alle cellule) o anti-N (nucleocapside), un’altra importante componente strutturale del virus, indispensabile per la sua replicazione.

La presenza degli anticorpi contro l’antigene N (nucleocapside) dimostra che l’organismo è venuto a contatto con il virus intero, attraverso l’infezione o per immunizzazione con vaccini a virus inattivati, come alcuni di quelli sviluppati in Cina e somministrati in diversi Paesi extraeuropei. Gli anticorpi stimolati dai vaccini attualmente disponibili in Italia invece sono solo anti-S o anti-RBD, perché i prodotti autorizzati finora in Europa non contengono l’intera particella virale, ma solo le istruzioni per produrre la proteina spike, S, appunto, in quantità e modalità sufficienti a indurre la risposta, senza provocare malattia.

In sintesi, tolti alcuni casi di vaccinazione all’estero, la presenza di anticorpi anti-N è prova di avvenuta infezione, mentre quelli anti-S possono derivare sia da un’infezione pregressa sia dalla vaccinazione.

Qualcuno effettua il test sierologico Covid-19 per curiosità, per sapere per esempio se un malessere passato sia stato provocato da un’infezione da Sars-CoV-2; altri invece richiedono l’esame per guidare, in base alla risposta, le proprie scelte vaccinali. In questo secondo caso la procedura, seppur consigliata a volte anche da alcuni medici, è scoraggiata con forza dalle autorità sanitarie perché può portare fuori strada, verso decisioni sbagliate: non ci sono prove che la presenza di anticorpi da pregressa infezione basti a proteggere da un nuovo contagio e possa quindi rendere inutile la vaccinazione, né, tanto meno, è stato dimostrato che la vaccinazione di una persona già parzialmente o totalmente immune possa essere pericolosa. In fondo, si tratta di quel che accade naturalmente ogni volta che una persona vaccinata viene a contatto con un soggetto contagioso. Non abbiamo a oggi ragione di pensare che la vaccinazione di una persona già immune possa aumentare il rischio di effetti indesiderati.

Dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ai Centri per la Prevenzione e la Cura delle Malattie (Cdc) del governo statunitense, fino al nostro ministero della Salute, l’indicazione è chiara: al di fuori di studi epidemiologici o attività di sanità pubblica, oppure, in casi eccezionali, di particolari condizioni mediche, la ricerca degli anticorpi nel singolo individuo è inutile, sia prima sia dopo la vaccinazione.

Ma come sono i test sierologici? Esistono esami sierologici qualitativi, come i test rapidi “pungidito”, che possono essere acquistati in farmacia e danno un verdetto positivo o negativo come un test di gravidanza, dicendo solo, con variabile grado di certezza, se l’individuo è venuto o meno a contatto con il virus o con la proteina spike prodotta in seguito alla vaccinazione.

I laboratori sono invece anche in grado di fornire una valutazione quantitativa della presenza di anticorpi nel sangue del soggetto. Il loro responso comprende quindi un numero, che spesso amici e parenti mettono a confronto per cercare di capire chi è più protetto degli altri. Questa valutazione però non ha senso, perché a oggi esistono molti kit diversi, che usano diversi metodi e quantificano con diversi criteri la quantità di anticorpi contro Sars-CoV-2. Non tutti, poi, hanno la stessa affidabilità.

A oggi, inoltre, non disponiamo di un valore soglia oltre il quale una persona possa considerarsi protetta e sotto al quale si debba viceversa preoccupare. In altre parole, otteniamo un responso a cui, a livello individuale, il medico non può dare un significato. La positività indica solo che l’organismo è venuto a contatto col virus o con il vaccino, ma ciò di per sé non garantisce protezione dall’infezione o dalla malattia. Anche nelle prime fasi degli studi necessari per autorizzare i vaccini si è misurata la produzione di anticorpi nel sangue come possibile surrogato di efficacia, ma solo i trial di fase 3 hanno permesso di certificare che i prodotti funzionano davvero.

Il test sierologico Covid-19, infatti, misura nel sangue la quantità di anticorpi indirizzati contro una determinata molecola del virus (per esempio la spike, o la proteina N), ma non dice quanti di questi hanno la capacità di neutralizzare il virus stesso, cioè di bloccarne l’azione, proteggendo l’individuo. Per effettuare un dosaggio degli anticorpi neutralizzanti, che non è un esame di routine, occorre poter manipolare il virus in un laboratorio a livello 3 di sicurezza, non disponibile ovunque. Potremmo avere quindi molti anticorpi, ma poco efficaci, e infettarci nonostante la loro presenza. Oppure, viceversa, potremmo averne di meno, ma tutti ben mirati al bersaglio giusto.

La risposta immunitaria inoltre si avvale di due “bracci”, uno rappresentato dagli anticorpi e l’altro dalle cellule, che aggrediscono direttamente il virus: attualmente siamo in grado di valutare solo la risposta anticorpale, mentre la ricerca di cellule specificamente rivolte contro un virus richiederebbe, anche in questo caso, laboratori specializzati. Anche per questo, un basso livello di anticorpi, di per sé, non significa che il vaccino non ha funzionato: in quell’individuo potrebbero essere le cellule a sobbarcarsi gran parte del lavoro.

Un altro limite del test deriva dal fatto che la ricerca degli anticorpi nel sangue offre una fotografia della situazione in un determinato momento: se siamo già venuti a contatto con il virus o con il vaccino l’esame dovrebbe risultare positivo, ma ancora non sappiamo quanto a lungo il nostro sistema immunitario si ricorderà di questo primo incontro in modo da montare una risposta efficace.

In sintesi, quindi, un test sierologico positivo non è sufficiente a rimandare o evitare la vaccinazione, perché da solo non garantisce protezione. Viceversa, in genere, un test negativo dopo la vaccinazione non deve allarmare, perché il sistema immunitario potrebbe aver comunque nota del virus per prepararsi a reagire meglio al prossimo incontro, magari schierando le sue cellule.

Ma allora perché a volte viene prescritto? Esistono situazioni in cui il medico può ritenere opportuno richiedere il dosaggio degli anticorpi in una persona molto fragile e immunodepressa, per esempio perché prende farmaci antirigetto per un trapianto. In questi casi, ci si può aspettare che anche due dosi di vaccino non abbiano dato una buona risposta e un risultato scarso può raccomandare maggiori cautele o far prendere in considerazione l’opportunità di un richiamo.

Più spesso, la maggiore utilità di questi esami è a livello di ricerca ed epidemiologia. I ricercatori possono per esempio sottoporre gruppi di volontari a un test sierologico Covid-19 per capire quanto il virus si sia già diffuso in maniera asintomatica nella popolazione oppure se e come la vaccinazione abbia indotto una risposta, quanto questa sia intensa e duratura e così via. In questo caso, con test uguali per tutti in condizioni standard, anche i confronti acquistano maggior significato.

In termini di sanità pubblica, poi, la ricerca degli anticorpi nella popolazione può aiutare a creare modelli più attendibili su quali potrebbero essere le future evoluzioni della pandemia, mostrando per esempio se in una zona il contagio troverà davanti a sé una popolazione completamente vulnerabile oppure che ha già in larga parte incontrato il virus.

I test sierologici possono quindi essere molto utili nella gestione della pandemia, ma non devono interferire con la scelta di vaccinarsi oppure no.

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