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Da soli si ricorda meno, gli effetti sulla memoria

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Quante volte abbiamo la sensazione di conoscere qualcuno, ma proprio non riusciamo a ripescare un nome dalla memoria, oppure ci salutano affettuosamente persone che per noi sono perfetti sconosciuti? Ebbene, dalla ricerca scientifica su questo fronte arrivano cattive notizie per single e solitari.

A risentire di una scarsa, se non nulla, vita sociale è (anche) la nostra memoria. Uno studio internazionale ha  infatti dimostrato che la solitudine può influire riducendo la capacità di riconoscere volti già visti. Lo studio, condotto dal Dipartimento di Psicologia della Sapienza in collaborazione con la Bournmouth University in Inghilterra, ha dimostrato che esiste una connessione tra solitudine e memoria, in particolare tra solitudine e capacità dell’uomo di riconoscere volti già visti.

La ricerca, pubblicata su Scientific Reports, si basa sul presupposto che l’essere umano abbia una forte necessità di connessioni sociali, un bisogno di affiliazione. Club, confraternite, gruppi e persino società scientifiche lo testimoniano.

Il senso di solitudine arriva nel momento in cui questo bisogno non viene soddisfatto, sia per mancanza di contatti sociali, sia perché si ritiene che i contatti sociali esistenti siano insoddisfacenti.

Partendo da questi elementi, i ricercatori hanno cercato di capire in che misura il numero di contatti sociali e la solitudine, riferita in questo caso da giovani studenti, influenzino la capacità di riconoscere volti di coetanei e volti di persone anziane, entrambe sconosciuti, ma incontrati precedentemente.

La ricerca si basa su un effetto noto in psicologia come l’Own Age Bias, che consiste nel vantaggio del cervello umano di riconoscere i volti dei coetanei.

Ma come è stata testata la memoria dei ragazzi? Nella prima fase sono stati presentati agli studenti volti di giovani e anziani con espressione felice, arrabbiata o neutra. Focus centrale di questa fase era la memorizzazione dei volti e la loro classificazione in giovani e anziani.

Quindi sono stati mostrati nuovamente volti di giovani e anziani sempre con espressione felice, arrabbiata e neutra. Metà dei visi erano stati già mostrati nella prima fase, metà no. Focus di questa fase era, appunto, il riconoscimento dei volti già visti.

“In pratica – come spiega Anna Pecchinenda, ricercatrice del team della Sapienza – ci siamo chiesti se la solitudine, motivando le persone a ristabilire connessioni sociali, potenzia il riconoscimento di volti felici che rappresentano segnali di affiliazione sociale, o quello di volti arrabbiati che rappresentano segnali di minaccia sociale, rispetto al riconoscimento di volti neutri di persone della propria età, viste in precedenza”.

I risultati ottenuti hanno rivelato che gli studenti più socievoli mostrano un riconoscimento superiore rispetto ai colleghi ‘solitari’, nel caso dei volti sorridenti di coetanei precedentemente visti.

Questo risultato indica un effetto della solitudine sulla memoria, affermano i ricercatori. La solitudine influenza la capacità di riconoscere persone a noi non familiari, che potrebbero essere importanti per stabilire connessioni sociali, e suggerisce un possibile fenomeno di perpetuazione della solitudine. Non è un caso, dunque, che la solitudine cronica sia attribuita al fallimento dei tentativi di ristabilire connessioni sociali.

Sentirsi socialmente isolati incide in maniera negativa non solo sul benessere emozionale, ma anche sulle funzioni cognitive dell’individuo. E a risentirne non è solo la memoria. Nelle persone anziane, la solitudine cronica è stata associata a un aumento della mortalità del 20%, ricordano i ricercatori.

Ecco dunque che questa ricerca risuona come un monito sull’importanza per la salute di creare e mantenere legami sociali a ogni età. Un compito che, probabilmente, gli anni di Covid-19 hanno reso più complesso e sfidante, specie per alcune fasce d’età.

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