Non demonizziamo gli antibiotici, l’analisi di Palamara (Iss)

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Le resistenze antimicrobiche sono uno degli esempi più chiari della necessità di riconoscere definitivamente il collegamento stretto e l’interdipendenza tra la salute degli esseri umani, degli animali, delle piante e dell’ambiente e di introdurre risposte multisettoriali, secondo l’approccio One Health. Ne abbiamo parlato con la professoressa Anna Teresa Palamara, direttrice del Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità e professoressa ordinaria di Microbiologia e Microbiologia Clinica presso la Sapienza Università di Roma.

 

  1. Professoressa vorremmo cominciare da un tema che è sempre sullo sfondo. Mi riferisco alla salute degli esseri umani, degli animali, delle piante, dell’ambiente e, quindi, alla necessità di introdurre risposte multisettoriali secondo l’approccio One Health, che abbiamo imparato a conoscere meglio nel corso della pandemia. Può tracciarci un quadro sintetico?

Dobbiamo precisare innanzitutto che i microbi, pensiamo a batteri, virus, funghi, popolano il mondo da molto prima di noi e non conoscono confini di sorta, né geografici né di genere di appartenenza, penso al regno animale e vegetale, quindi a uomini, animali, piante. Il modo di approcciarsi correttamente ai microbi, quindi, non può consistere nel pensare di sterminarli, come forse si è erroneamente creduto nel passato, ritenendo che con l’avvento degli antibiotici si sarebbe risolto il problema delle malattie infettive.

Così non è, perché i microbi hanno loro meccanismi di sopravvivenza, che li portano a resistere a qualsiasi cosa si opponga alla loro crescita e alla loro sopravvivenza nell’ambiente, e con questo dobbiamo confrontarci, con metodologie adeguate, intelligenti, coordinate che consentano un approccio a tutto tondo e guardino al mondo umano come interconnesso al mondo animale e vegetale, e all’ambiente in genere. Questo è, oggi, uno dei temi principali di riflessione, e anche il nuovo Piano di contrasto all’antibiotico resistenza (PNCAR, n.d.r.) va in questa direzione, perché affronta sia le problematiche del mondo animale che del mondo umano in modo parallelo e vede sullo sfondo anche le questioni ambientali. All’Istituto Superiore di Sanità stiamo mettendo in piedi una serie di sorveglianze integrate, secondo un approccio multisettoriale, perché ciò che viene rilasciato dagli animali e dall’uomo va nell’ambiente, ma non è solo qualcosa di inerte, sono organismi viventi, quindi nel caso specifico batteri, funghi e anche virus, capaci di moltiplicarsi e di diffondere i meccanismi di resistenza che hanno acquisito. Una seconda premessa riguarda gli antibiotici, che sono una delle principali conquiste della storia della medicina. Sino a cento anni fa si moriva di una banale infezione respiratoria o urinaria, che adesso sono curabili. Quindi l’obiettivo del nostro sforzo non è demonizzare gli antibiotici, ma imparare a preservare quest’arma fondamentale che ci permette di rimanere al mondo e di rimanerci con un vantaggio in termini di sopravvivenza rispetto ai microbi.

 

  1.  Secondo un rapporto recente dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), riferito al periodo tra il 2014 e il 2018, nonostante si cerchi di promuovere politiche coordinate di contrasto all’antimicrobico resistenza, si sono realizzati molti più progressi nel controllo dell’utilizzo degli antibiotici negli animali, piuttosto che nell’uomo. Come si spiega questo disallineamento?

 

 

È molto difficile rispondere. Probabilmente il fatto che gli animali sono al centro di molte attività produttive facilita anche la diffusione di certi approcci virtuosi, per mantenere la loro salute. Ovviamente la diffusione di comportamenti in ambito umano implica sempre una maggiore variabilità di risposta. Ma l’interconnessione tra questi due mondi è importantissima.

Siamo riusciti con grandi sforzi ad ottenere un contenimento del consumo di antibiotici negli animali, che oggi non sono più permessi come in passato, per esempio come fattori di crescita negli allevamenti, e questo è un obiettivo molto importante, che va mantenuto e salvaguardato, perché non dobbiamo nasconderci che non è così in tutti i paesi, europei ed extra europei, quindi è un obiettivo che va assolutamente perseguito. In ambito umano ci si sta provando e col nuovo Piano di contrasto all’antibiotico resistenza la riduzione del consumo di antibiotici anche in ambito umano è uno degli obiettivi fondamentali. Nell’ultimo rapporto dell’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco, n.d.r.) si legge che c’è stata una certa riduzione nell’utilizzo di antibiotici anche nell’uomo ma, lo ripeto, l’obiettivo non può essere solo quello di ridurre i consumi, quanto piuttosto di razionalizzarli, utilizzando gli antibiotici quando effettivamente servono.

 

  1. Parliamo di antimicrobico resistenza nell’uomo. Una volta ci si concentrava prevalentemente sull’ospedale, oggi si riconosce al territorio un ruolo essenziale. Tuttavia, l’ospedale resta ancora il luogo dell’antibiotico resistenza, perché sappiamo che una quantità di germi resistenti, i cosiddetti super bugs, prevalgono all’interno delle strutture ospedaliere e combattiamo ancora oggi con le infezioni associate all’assistenza sanitaria. Qual è il suo punto di vista su tutta questa vicenda?

 

Sicuramente all’interno degli ospedali vediamo gli effetti più dannosi della resistenza agli antibiotici, associati alle infezioni correlate all’assistenza, che riguardano soprattutto pazienti fragili, lungodegenti, o complicazioni di interventi chirurgici. E spesso sono causa, purtroppo, di mortalità. Però, molto del problema è del territorio, perché non dobbiamo nasconderci dietro un dito e senza demonizzare assolutamente nessuno, molte prescrizioni di antibiotici provengono dai medici di famiglia, dai pediatri (secondo il Rapporto Aifa 2021 su L’uso degli antibiotici in Italia, quasi il 90% degli antibiotici rimborsati dal SSN è prescritto sul territorio, in regime di assistenza convenzionata, n.d.r.), dai vari specialisti per la prevenzione anche di piccoli interventi di chirurgia, che a volte forse non ne avrebbero proprio bisogno. Ovviamente anche in questo caso dobbiamo renderci conto che il problema è complesso e si risolve solo con un’azione multisettoriale. Anche la medicina difensiva ha una parte in tutto questo, perché molti medici si sentono oggetto di possibili azioni legali da parte di pazienti che possono sviluppare infezioni, e ciò li porta a considerare sempre l’uso degli antibiotici. A tal proposito lo sviluppo di linee guida precise, in collaborazione con le varie classi di specialisti, è un obiettivo importante che va assolutamente perseguito.

  1. Qual è il suo punto di vista sulla stewardship antimicrobica negli ospedali italiani?

La stewardship antimicrobica è una pratica che fortunatamente si sta diffondendo negli ospedali italiani e, anche in modo virtuoso, molte Regioni stanno adeguando le procedure per favorirla all’interno delle strutture ospedaliere. È un processo complesso, che riguarda soprattutto gli infettivologi, ma anche i farmacologi e i microbiologi clinici, che consiste non solo nel dare l’antibiotico giusto al paziente giusto, ma anche nel consigliare la via di somministrazione più corretta, il giusto dosaggio e periodo di cura e la giusta de-escalation, passando da una terapia empirica, che molte volte viene attuata all’inizio di un ricovero ospedaliero, ad una terapia più mirata.

Mi preme sottolineare che sarebbe utile anche una stewardship diagnostica, perché con l’innovazione vorticosa della diagnostica e i mezzi a nostra disposizione, oggi è possibile fare diagnosi nei casi di sepsi o di infezioni gravi in tempi molto rapidi. Ovviamente questo tipo di procedure non può essere riservato a tutti i pazienti nello stesso modo, anche per ragioni di costi. Quindi è molto importante scegliere il test migliore da applicare a quel paziente in tempi rapidissimi, per ottenere prima possibile una risposta che consenta di applicare la terapia giusta nelle modalità giuste.

  1. Qual è lo stato dell’arte della innovazione diagnostica all’interno della rete ospedaliera italiana?

 

 

La diagnostica sta facendo fortunatamente progressi da gigante. All’interno degli ospedali più importanti ma anche in molte strutture più piccole oggi sono a disposizione mezzi che consentono di fare diagnosi in modo rapido. Sono già disponibili, e in via di ulteriore sviluppo, metodi di diagnostica cosiddetti rapidi, che permettono di identificare rapidamente le resistenze al letto del paziente, magari in situazioni disagiate, insomma anche lontano da sedi ospedaliere importanti. Anche queste tecnologie vanno utilizzate con attenzione, perché i microbi sono in continua evoluzione e anche la capacità di identificare per via rapida segmenti genici che indicano una resistenza, non necessariamente si traduce in una resistenza o in una sensibilità effettiva verso quell’antibiotico. Queste metodiche rapide vanno utilizzate sempre con un occhio vigile e attento da parte di chi è responsabile di un laboratorio di riferimento.

Tuttavia, non c’è dubbio che la genomica e la sua evoluzione rapidissima ci consentano non solo di disporre di sistemi diagnostici sempre più veloci e adeguati a capire l’evoluzione del mondo microbico, ma permettano anche di mettere a punto sistemi di sorveglianza periferici, che confluiscono poi in un sistema centrale o coordinato centralmente, in maniera da poter seguire in modo costante l’evoluzione di alcune specie microbiche e di ricevere segnali di alert precoci.

Lei fa riferimento a un flusso di dati che, letti in maniera integrata e centralizzata, consentano di disporre di un monitoraggio costante della situazione?

Sì, e vorrei anche precisare che l’esperienza che è stata fatta con la pandemia da SARS-CoV2, certamente per molti versi devastante, ci ha lasciato anche un’eredità preziosa. Molti laboratori sul territorio italiano sono in grado, oggi, non solo di fare diagnosi ma anche sorveglianza, ed è stata fatta una esperienza di coordinamento centrale di tutti questi laboratori che ci consente, per esempio, di avere settimanalmente dati aggiornati sulla circolazione delle varianti virali. Ora questa esperienza va assolutamente mantenuta, ne dobbiamo far tesoro, non la dobbiamo sprecare, e anzi dobbiamo estenderla non solo a tutti i patogeni respiratori ma possibilmente anche al mondo dell’antimicrobico resistenza, quindi a batteri e funghi.

  1. L’innovazione diagnostica è la premessa essenziale per utilizzare bene anche l’innovazione terapeutica. Come si è evoluta l’innovazione terapeutica soprattutto nel contrasto in ambito ospedaliero?

 

 

Nonostante i nuovi antibiotici siano di fatto pochi, la ricerca è attiva e noi speriamo che ci siano sempre nuove molecole da poter utilizzare. Ovviamente questo è un processo lungo e costoso, e che richiede adeguati controlli. Bisogna muoversi su più fronti, quindi da una parte sostenere la ricerca di nuove molecole, dall’altra non smettere mai di cercare combinazioni di farmaci efficaci che possono essere utilizzate in modo da risparmiare le nuove molecole destinandole solo ad alcuni casi.

Bisogna sostenere la ricerca anche di strategie innovative, per esempio, giusto per citarne una, la terapia fagica, che può essere un’alternativa, soprattutto in alcuni casi, o alcuni prodotti cosiddetti naturali, e qui ci sarebbe da aprire un lungo discorso. Sono convinta, comunque, che vada sostenuta la ricerca di nuove strategie. Così come va promossa la ricerca di nuovi metodi di sanificazione, perché i metodi per la prevenzione delle infezioni includono la sanificazione, la disinfezione non solo attraverso l’utilizzo di disinfettanti chimici ma anche, per esempio, con mezzi fisici. Ancora una volta, ciò che è successo con la pandemia ci ha aperto alcune strade. E poi non bisogna dimenticare che alcune infezioni possono essere prevenute con i vaccini. Ciò che può essere prevenuto, deve essere prevenuto. Non tutto si può prevenire, ovviamente, ma ogni qualvolta possiamo farlo è un’ottima cosa andare in questa direzione, perché prevenire le malattie è sempre meglio che curarle.

 

L’innovazione terapeutica può aiutarci a ridurre quel gap che abbiamo rispetto ad altri Paesi europei e che ci colloca in questo momento nei rapporti dell’ECDC (il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle malattie, l’equivalente del CDC americano, n.d.r.), al primo posto per decessi da germi resistenti agli antibiotici, oppure dobbiamo rassegnarci ad una lunga marcia nel deserto e ad un percorso ancora faticosissimo?

Gli effetti sulla mortalità si vedono a distanza, hanno tempi lunghi e dipendono non solo dall’utilizzo di farmaci nuovi ma anche da un certo tipo di organizzazione, dall’organizzazione della diagnostica, dall’organizzazione all’interno degli ospedali, che riguarda anche, per esempio, le modalità con cui si approcciano i pazienti da parte del personale infermieristico, dalla capacità di bloccare la diffusione di questi germi. Io sono fiduciosa e sono sicura che se applichiamo correttamente tutte le strategie previste dal PNCAR siamo sulla strada giusta, anche perché vedo grande attenzione e collaborazione anche da parte di tutte le strutture regionali, e questo è molto importante.

 

  1. Le politiche sanitarie hanno sempre bisogno di due grandi elementi, da una parte le risorse, dall’altra l’organizzazione, che lei citava adesso come un elemento fondamentale. A che punto siamo su entrambi questi terreni?

 

Le risorse sono sempre poche, per definizione. Ma devo dire che ultimamente ci sono stati dei cambiamenti, dobbiamo vedere i segnali negativi ma anche leggere i segnali positivi. Ci sono risorse proprio sui Piani regionali di contrasto all’antimicrobico resistenza, che sono state distribuite alle varie Regioni, e mi sembra che si tratti di qualcosa come 40 milioni di euro per anno per i prossimi tre anni. E poi ci sono 80 milioni per la formazione, perché la formazione è un altro settore importantissimo, che va sviluppato, penso per esempio alla formazione in ambito medico e infermieristico di tutti gli operatori sanitari, insieme all’informazione. Su tutto questo penso che ci si stia muovendo nel modo giusto.

Ultimamente anche l’Istituto Superiore di Sanità ha partecipato con 25 atenei italiani ad un progetto, nell’ambito del PNRR, il Piano nazionale delle emergenze infettive, e anche lì sono state destinate molte risorse alla ricerca, in particolare alla ricerca di nuove modalità per la prevenzione e il contrasto delle malattie che derivano da patogeni emergenti, e tra questi ci sono molti patogeni che rientrano tra quelli resistenti agli antimicrobici. Quindi, non voglio fare del facile ottimismo, ma penso che quando tante forze del nostro Paese vengono messe a sistema, e vengono assegnate risorse per andare verso un obiettivo, i successi poi arrivano. Lo abbiamo già dimostrato nel passato recente con uno dei più grandi successi della lotta alle malattie infettive, la lotta all’AIDS, e gli ottimi risultati raggiunti anche in Italia con il Piano nazionale AIDS, che ha dato un contributo importante. Penso che quei successi si possano replicare anche per il contrasto all’antimicrobico resistenza.

 

  1. Approfittiamo del suo ruolo per chiederle quali sono le strategie dell’Istituto Superiore di Sanità nel contrasto all’antimicrobico resistenza?

 

Abbiamo progetti molto ambiziosi. Il primo, che è uno degli obiettivi cardine del progetto nell’ambito del PNRR, punta ad istituire una sorveglianza genomica integrata uomo, animale, ambiente, dedicata a diversi patogeni e tra questi molti sono identificati come patogeni antimicrobico resistenti, quindi stafilococchi, enterococchi, enterobatteri, solo per citarne alcuni. È un obiettivo molto importante, che condividiamo in collaborazione con colleghi che sono in tutta Italia e mi fa molto piacere dire che per la prima volta stiamo collaborando con una rete di Istituti zooprofilattici su tutto il territorio nazionale, insieme con il Dipartimento di Salute animale e con il Dipartimento ambiente del nostro istituto.

Uno degli obiettivi è la messa a punto di sistemi di allerta rapida che derivano, per esempio, dall’analisi delle acque reflue, che possono essere un indicatore importante sia per la circolazione dei patogeni sia per l’utilizzo di antibiotici.

 

 

 

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