Sanità, tra attese e spesa privata l’agonia del Ssn

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Se medici e infermieri non se la passano bene, quella della sanità pubblica italiana sembra ormai una lenta agonia. Si moltiplicano infatti in questi mesi gli allarmi per la tenuta del Servizio sanitario nazionale che, dopo lo tsunami pandemia, si trova a fare i conti con gli effetti di anni di definanziamento. Lunghissime liste di attesa, pronto soccorso allo stremo, medici di medicina generale assenti in molte aree definite “deserti sanitari”.

Così il ricorso alla spesa privata aumenta e le diseguaglianze crescono. Tanto che molti rinunciano a curarsi. L’ultimo report realizzato da Cittadinanzattiva non stupisce gli operatori ma anche i cittadini che hanno modo di entrare in contatto con la sanità pubblica. L’elenco delle criticità è lungo e non a caso si è parlato di “Urgenza sanità”: l’associazione civica ha annunciato una mobilitazione permanente sui territori a difesa del Servizio Sanitario Nazionale.

Non c’è tempo da perdere

“I dati presentati in questo Rapporto e le storie che le persone raccontano ai nostri attivisti sul territorio, ci mettono nella urgenza di proclamare come cittadini lo stato di emergenza della sanità – ha detto Anna Lisa Mandorino, segretaria generale di Cittadinanzattiva – e una mobilitazione permanente a difesa del nostro Ssn”.

“Per superare l’Urgenza Sanità chiediamo che siano riaffermate cinque condizioni, cinque chiavi di accesso alla casa comune del Servizio Sanitario Nazionale: l’aggiornamento periodico e il monitoraggio costante dei Livelli essenziali di assistenza; l’eliminazione delle liste di attesa; il riconoscimento e l’attuazione del diritto alla sanità digitale; la garanzia di percorsi di cura e di assistenza dei malati cronici e rari e, in particolare, delle persone non autosufficienti; l’attuazione della riforma dell’assistenza territoriale prevista dal Pnrr”.

Il Rapporto civico sulla salute

Il documento, alla seconda edizione, integra i dati provenienti dalle 14.272 segnalazioni dei cittadini, giunte nel corso del 2022 alle sedi locali e ai servizi PIT Salute di Cittadinanzattiva, con dati provenienti da fonti istituzionali, accademici o della ricerca. L’obiettivo è mostrare come si traduce oggi il diritto alla salute dei cittadini nel complesso sistema del federalismo sanitario.

Liste d’attesa

Attese e accesso difficile alle prestazioni (che raccolgono quasi una segnalazione su tre, 29.6%), carenze nell’assistena ospedaliera (15,8%), territoriale (14,8) e nella prevenzione (15,2%): ecco i problemi più segnalati dai cittadini. Al quinto posto la sicurezza delle cure (8,5%). Seguono criticità legate a informazioni e documentazioni (4,5%), assistenza previdenziale (2,8%), umanizzazione e relazione con operatori sanitari (2,6%), spesa privata e ticket elevati (1,7%) e assistenza protesica e integrativa (1,4%).

A crescere rispetto al 2021, sono soprattutto le problematiche che riguardano l’accesso alle prestazioni (+5.8%) e quelle legate all’assistenza in ospedale (+4,4%).

Troppo tempo, e c’è chi rinuncia

Vediamo allora di quanta pazienza debbono armarsi i cittadini italiani che hanno bisogno di accertamenti diagnostici o cure. Il report segnala due anni per una mammografia di screening, tre mesi per un intervento per tumore all’utero che andava effettuato entro un mese, due mesi per una visita specialistica ginecologica urgente da fissare entro 72 ore, sempre due mesi per una visita di controllo cardiologica da effettuare entro 10 giorni. Il tutto complicato da difficoltà a contattare il Cup e impossibilità a prenotare per liste d’attesa bloccate.

Visite impossibili

Per le visite che hanno una Classe B-breve (da svolgersi entro 10 giorni) i cittadini che ci hanno contattato hanno atteso anche 60 giorni per la prima visita cardiologica, endocrinologica, oncologica e pneumologica. Senza codice di priorità, si arrivano ad aspettare 360 giorni per una visita endocrinologica e 300 per una cardiologica.

Una visita specialistica ginecologica con priorità U (urgente, da effettuare entro 72 ore) è stata fissata dopo 60 giorni dalla richiesta. Per una visita di controllo cardiologica, endocrinologica, fisiatrica con priorità B (da fissare entro 10 giorni) i cittadini di giorni ne hanno aspettati 60. Per una visita ortopedica, sempre con classe d’urgenza B ci sono voluti addirittura 90 giorni. Una visita endocrinologica senza classe di priorità è stata fissata dopo 455 giorni, dopo 360 giorni una visita neurologica.

In ritardo per colpa di Covid

La quasi totalità delle Regioni non ha recuperato le prestazioni in ritardo a causa della pandemia, e non tutte hanno utilizzato il fondo di 500 milioni stanziati nel 2022 per il recupero delle liste d’attesa. Non è stato utilizzato circa il 33%, per un totale di 165 milioni. I dati raccontano che il Molise ha investito solo l’1,7% di quanto aveva a disposizione, circa 2,5 milioni. Male anche la Sardegna (26%), la Sicilia (28%), la Calabria e la Provincia di Bolzano (29%).

Se la pazienza finisce

Così c’è chi rinuncia, o si rassegna a metter mano al portafogli. Dalle indagini Istat si rileva nel 2022 una riduzione della quota di persone che ha effettuato visite specialistiche (dal 42,3% nel 2019 al 38,8% nel 2022) o accertamenti diagnostici (dal 35,7% al 32,0%) – nel Mezzogiorno quest’ultima riduzione raggiunge i 5 punti percentuali. Rispetto al 2019 aumenta la quota di chi dichiara di aver pagato interamente a sue spese sia visite specialistiche (dal 37% al 41,8% nel 2022) che accertamenti diagnostici (dal 23% al 27,6% nel 2022).

Il ricorso a prestazioni sanitarie avvalendosi di copertura assicurativa sanitaria risulta più diffuso nel Lazio (nel 2022 il 10,8% delle persone dichiara di averne fatto ricorso in caso di visite specialistiche), in Lombardia (9,7%), nella Provincia autonoma di Bolzano (9,1%) e in Piemonte (8,1%); si attesta intorno al 5% in Liguria, Emilia Romagna e Toscana, mentre nelle regioni del Mezzogiorno copre in media solo l’1,3% per le visite specialistiche.

Pronto soccorso in crisi

Se la sanità è sotto pressione, i pronto soccorso sono decisamente oltre. Le segnalazioni più ricorrenti riguardano: eccessiva attesa per effettuare o completare il triage (18,9%) pronto soccorso affollato (15,4%), carente informazione al paziente o al familiare (9,8%), mancanza di posti letto in reparto per il ricovero (9,2%), mancanza del personale medico (8,7%), pazienti in sedia a rotelle o in barella lungo i corridoi per ore o perfino giorni (7,5%).

Il fatto è che negli ultimi 10 anni abbiamo fatto i conti con una riduzione costante e cospicua delle strutture di emergenza, sottolineano da Cittadinanzattiva. Parliamo di 61 dipartimenti di emergenza, 103 pronto soccorso, 10 pronto soccorso pediatrici e 35 centri di rianimazione in meno. Per quanto riguarda le strutture mobili, nello stesso lasso di tempo abbiamo avuto una riduzione di 480 ambulanze di tipo B, un incremento di sole 4 ambulanze di tipo A (ma nel 2019 il decremento rispetto al 2010 era di 34 unità), un decremento di 19 ambulanze pediatriche e di 85 unità mobili di rianimazione. Insomma, il servizio si contrae (e peggiora).

Prevenzione un miraggio

In questa situazione, a risentirne di più è la prevenzione. Come ricorda il rapporto sono sei le regioni (erano tre nel 2019) che non raggiungono la sufficienza rispetto ai criteri Lea per questo scopo: Sicilia, PA di Bolzano e CalabriaLiguria, Abruzzo, Basilicata.

Emergenza personale

I dati di una nuova indagine su 10mila professionisti, realizzata in collaborazione con Fnopi e FNO TSRM e PSTRP testimonia come oltre il 46% degli operatori della sanità afferma di essere soddisfatto del proprio percorso professionale, ma non altrettanto del proprio ambiente di lavoro che stimola poco o niente la realizzazione personale (per il 42,6%) e la crescita (48,5%).

Oltre il 40% dichiara di avere carichi di lavoro insostenibili e uno su tre non riesce affatto a bilanciare i tempi lavorativi con quelli della vita privata. Il 31,6% denuncia di essere stato vittima, negli ultimi tre anni, di aggressione (verbale o fisica) da parte degli utenti, il 20,7% da parte di un proprio superiore e il 18,4% da parte di colleghi. E l’assenza nel posto di lavoro di un punto di ascolto psicologico è lamentata in particolare dal 65,9% degli intervistati.

Nonostante queste difficoltà, i professionisti sanitari credono ancora nel valore del Ssn e nella salute come bene pubblico: la maggioranza si sente orgogliosa di contribuire personalmente a dare risposta ai bisogni sociali e sanitari del cittadino (66,9%) e quindi di poter contribuire al benessere della comunità (71,6%).

Salute mentale

Su cento segnalazioni ricevute da Cittadinanzattiva in tema di assistenza territoriale, il 27,8%  fa esplicito riferimento alla salute mentale, in forte aumento rispetto al dato del 2021 pari al 12,8%. Le segnalazioni delineano uno scenario di crescente deficit strutturale dei servizi di salute mentale. Un dato davvero preoccupante, se consideriamo che proprio gli anni di pandemia hanno avuto un impatto pesante, come abbiamo visto, sulla psiche degli italiani.

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