Coronavirus, cosa sta facendo l’industria farmaceutica?

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La risposta dell’industria farmaceutica all’emergenza coronavirus è compatta. Dentro e fuori dai confini nazionali. Se in Italia Farmindustria ha dato piena disponibilità a dare il suo supporto alle autorità, come sottolineato dallo stesso presidente Massimo Scaccabarozzi, dall’altra in Cina la Clover Biopharmaceuticals sta sviluppando un possibile vaccino e una hi-tech di Wuxi (provincia di Shanghai) ha messo a punto un kit per la diagnosi rapida del virus. Non è da meno Johnson & Johnson che, dagli Stati Uniti, ha fatto altrettanto: test diagnostico pronto e vaccino in via di sviluppo. Mentre la francese Sanofi e altre stanno monitorando la situazione mettendo a disposizione la propria expertise.

“Martedì il comitato di presidenza di Farmindustria affronterà, fra gli altri argomenti in agenda, anche il tema del coronavirus, a tutti i livelli, dalla ricerca scientifica di strumenti diagnostici, vaccini e terapia, fino alla produzione e all’approvvigionamento dei farmaci” che potrebbe essere influenzata dall’emergenza coronavirus, ha spiegato Scaccabarozzi sottolineando che “l’Italia fa parte di un mondo ormai globalizzato e per far sì che il problema si affronti in modo efficace deve partecipare a tutti i livelli. Peraltro la produzione italiana in questo momento ha ancora più valore”.

La scorsa settimana a Davos, nel corso del World Economic Forum cui hanno partecipato tutti i leader delle aziende farmaceutiche “c’è stata una mobilitazione collettiva per combattere il diffondersi della malattia attraverso investimenti nella ricerca di sistemi diagnostici, trattamenti e vaccini”, sottolinea il numero uno di Farmindustria. “A questa ricerca partecipano scienziati di tutto il mondo, dunque anche l’Italia farà la sua parte. È chiaro che poi i vaccini devono essere sperimentati laddove ci sono più pazienti: al momento, per fortuna, ci sono solo due infetti in Italia, due persone che non sono nemmeno italiane e che peraltro stanno bene. Questo è positivo, come il fatto che siano stati prontamente intercettati e presi in carico”, rassicura.

Tra le big del pharma al lavoro per tamponare l’epidemia c’è J&J che è scesa in campo su più fronti: l’azienda americana ha iniziato a sviluppare un vaccino contro il 2019-nCoV. “Stiamo collaborando con le autorità regolatorie, le organizzazioni sanitarie, le istituzioni e le comunità in tutto il mondo – afferma Paul Stoffels, vicepresidente del Comitato esecutivo e direttore scientifico di J&J – per fare in modo di garantire che le nostre piattaforme di ricerca, la scienza e le competenze esistenti in materia di epidemie possano essere massimizzate al fine di arginare questa minaccia alla salute pubblica”.

Sul fronte dei trattamenti, invece, “ci sono dei farmaci antivirali che sembra funzionino contro il coronavirus, così come hanno funzionato contro il virus dell’Hiv ed Ebola. Ed essendo questi medicinali già in commercio e testati per la loro sicurezza, credo sia più rapido disporne rispetto a un vaccino”, ha detto all’Adnkronos Salute Giorgio Palù, professore ordinario di Microbiologia e virologia all’università di Padova ed ex presidente
della Società europea e italiana di Virologia.

I farmaci che potrebbero funzionare contro il coronavirus “si chiamano antivirali anti-proteasici, hanno come bersaglio la proteasi del coronavirus, una proteina simile a quella dell’Hiv. Le molecole che sembra siano efficaci dai primi studi sono lopinavir e ritonavir. Si stanno testando anche inibitori della trascrittasi, proteina responsabile della replicazione del virus, efficaci contro il virus Ebola. Gli studi di sicurezza già ci sono, basterà sperimentarli a livello di efficacia e poi aumentarne la produzione”, dice l’esperto.

Mentre i vaccini “si possono produrre anche in due settimane, e molti centri ci stanno già lavorando. Il problema è che bisogna provarne la sicurezza, e dunque studiarli su centinaia di persone, per poi testarne l’efficacia. Di solito ci vogliono 10 anni. Per Ebola i tempi si sono ridotti, per una questione etica e sanitaria. Ma per questo virus, che ha una bassa mortalità, bisogna anche considerare che è in grado di ricombinarsi e questo potrebbe rendere i vaccini messi a punto inefficaci”.

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