Coaching e disturbi alimentari, la posizione di Aicp

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Il coaching “mai, e in nessun caso, può essere finalizzato alla gestione/cura di disturbi di alcun genere, compresi quindi quelli alimentari”. A precisarlo è l’Aicp, Associazione Italiana Coach Professionisti, che prende le distanze da un progetto di coaching rivolto a un disturbo alimentare.

“Come associazione di categoria – spiega la presidente Laura Leone – abbiamo particolarmente a cuore che la pratica del coaching possa diffondersi il più possibile in tutti i contesti nei quali riteniamo essa possa arrecare beneficio a chi ne usufruisca. Proprio per tale motivo, ci facciamo garanti di vigilare su tutte le comunicazioni, di cui veniamo a conoscenza, dalle quali emerge un’immagine del coaching fuorviante e confusa, che leda tale pratica e tutti coloro che si impegnano, con la loro quotidiana dedizione, a svolgerla secondo quelle che sono le direttive previste dalla legge”.

Nel caso specifico, poi, “oltre a tutelare la nostra categoria, abbiamo anche voluto palesare tutto il nostro più profondo rispetto per i principali destinatari dell’articolo, ovvero persone che si sono trovate o ancora si trovano ad avere a che fare con dei disturbi, quelli alimentari, che per natura, complessità, decorso ed evoluzione, necessitano di un tipo di intervento che esula da quello che può offrire il coaching”.

“Divulgare le buone pratiche derivanti da un metodo nel quale crediamo profondamente e nel quale ci identifichiamo come professionisti, passa anche attraverso l’avere chiaro ed il ribadire i confini con altri ambiti professionali e che, lungi dal volere chiudere la porta a un dialogo verso il quale siamo sempre aperti e disponibili, vuole tuttavia rimarcare il rispetto delle reciproche competenze e differenze, nell’ottica di una mutua collaborazione, laddove ciò sia possibile”.

“Il coaching in Italia è un metodo ed un processo che, con le dovute differenze tra i diversi approcci teorici di riferimento, si occupa dello sviluppo di competenze e risorse orientate a un obiettivo auto-determinato dal cliente. Ma mai, e in nessun caso, può essere finalizzato alla gestione/cura di disturbi di alcun genere, compresi quindi quelli alimentari, per i quali è necessario l’intervento di professionisti e discipline che sono altro dal coaching”.

“Un cliente che faccia richiesta di un intervento di coaching può essere spinto sia da un desiderio di miglioramento che da uno di cambiamento, i quali, sebbene possano insorgere a seguito di un “problema”, una crisi, una criticità, si sviluppano sempre e comunque in una condizione di salute. In altre parole, un conto è trovarsi a gestire un problema legato alle possibilità di cambiamento e miglioramento personale, un altro è avere un problema di salute da curare (malattia, disturbo, disagio). Dal momento che siamo consapevoli di quanto i confni, per l’essere umano, non siano mai netti, ci preme particolarmente, come coach professionisti, e in linea con la natura e la missione della nostra associazione, diffondere chiarezza e rigore circa il confine che c’è tra cura e sviluppo per come quest’ultimo viene concepito dal coaching”.

Insomma, una cosa “è il processo di sviluppo personale che si ottiene attraverso un percorso terapeutico che prevede la cura come strumento d’elezione, altro è lo svilupparsi, inteso come obiettivo principale di un percorso di crescita, miglioramento, cambiamento che, pur partendo da una situazione di criticità che, naturalmente, può generare disagio e sofferenza, non ‘sconfina’ mai nell’ambito della patologia”.

“Anoressia, bulimia e patologie simili sono – i clinici lo sanno bene – oggetto di supporto terapeutico e non è possibile occuparsene nella maniera più assoluta in un percorso di coaching, in quanto andrebbe contro ciò che la norma italiana disciplina rispetto alla professione, configurando, tra l’altro, un possibile reato di esercizio abusivo della professione medica e psicologica”.

Infne, “nonostante siano tanti i coach (e i terapeuti) che utilizzano apposite tecniche all’interno dei percorsi (quasi a confondere i percorsi con le tecniche) ciò non vuol dire che sia corretto; è un problema della professione il fatto che sia spesso pensata e compresa come quelle tecniche. Un percorso di coaching non meditazione, né rilassamento, né può avere obiettivi pre-determinati (“nuove sane abitudini alimentari”), perché è un processo nel quale l’obiettivo e il senso è definito nel percorso dal cliente; l’obiettivo defnito dal cliente è unico, rilevante e misurabile per il cliente, e qualora il cliente volesse usare tecniche di rilassamento, è una scelta (azione) del cliente e nulla ha a che vedere con il processo costruito in affancamento al professionista del coaching”.

Infine la relazione di coaching “è una relazione nella quale coach e coachee sono in una posizione paritaria, dove il coach è esperto del processo, non del problema, e il cliente è esperto di se stesso e della sua vita”. Nel ribadire che il “ben – essere (di cui la salute è un aspetto importante ma non l’unico) è certamente un “settore” di cui il coaching si occupa in tutti gli ambiti in cui interviene (life, business, inteso come benessere aziendale, sport), teniamo anche a sottolineare come esso, a nostro parere, non possa essere semplicemente identificato come ‘assenza di malattia’”, conclude Leoni.

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