Fuga dei cervelli, effetto Covid e impatto sul Pil

Bruna Corradetti
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Nell’arco di 10 anni quasi un milione di italiani si è cancellato dalle anagrafi comunali per espatriare all’estero, con un ritmo che ha visto superare le 100mila unità l’anno dal 2015. Poi c’è stata Covid-19, e il sogno di tanti giovani ha subito una battuta d’arresto. Nel 2020 comunque sono stati 112.218 gli italiani che hanno scelto di lasciare il nostro Paese, il 45,5% donne, secondo i dati del Centro Studi e Ricerche Idos. Se a partire sono spesso giovani in cerca di un posto nel mondo, molti sono ricercatori altamente qualificati o in fase di specializzazione.

Una ‘migrazione di cervelli’ che, in parte, è stata frenata dalla pandemia, ma che secondo gli esperti è destinata ad avere un impatto sull‘Italia in pieno inverno demografico, dal punto di vista della popolazione e da quello economico, con un pesante riflesso sul Pil. Ne parliamo con Bruna Corradetti, scienziata italiana da anni negli Stati Uniti, che gestisce un gruppo di ricerca tra Usa e Regno Unito. Corradetti è Assistant Research Professor of Nanomedicine presso il Research Institute Houston Methodist, ed è autrice di TEDx talk sul “potere della resilienza nella scienza”.

Per anni si è parlato di fuga dei cervelli, in che modo l’emigrazione dei nostri giovani di talento è stata influenzata dalla pandemia?

La pandemia, e le conseguenti restrizioni negli spostamenti, ha determinato una battuta di arresto piuttosto netta nella fuga dei cervelli. Non solo, ha reso complicata la vita di chi da tempo aveva scelto di lasciare il Bel Paese per perseguire un sogno. Il sogno americano, ad esempio, si è trasformato in un vero e proprio incubo. Il travel ban imposto dal governo americano come misura contenitiva per arginare la diffusione del virus ha sospeso qualsiasi viaggio verso gli Stati Uniti considerato non essenziale (le emergenze familiari e i lutti non venivano considerati essenziali) alle persone provenienti dall’area Schengen, inclusa l’Italia. Uscire dagli Stati Uniti per fare visita alla famiglia in situazioni di emergenza ha significato per molti il rischio di rimanere bloccati fuori confine, lasciare indietro casa, animali domestici, un lavoro, dipendenti con gravi conseguenze finanziarie ed emotive. Questa pesante misura restrittiva, che peraltro non colpiva cittadini americani o detentori di Green Card, riguardava anche chi, come me, è in possesso di visti lavorativi di eccellenza, vive, lavora paga le tasse negli Stati Uniti. Va da sé che a pagarne le conseguenze erano anche professionisti (o studenti) che avevano deciso, prima della pandemia, di esprimere i loro talenti al di là dell’oceano, soggetti a ritardi e lungaggini burocratiche che scoraggiavano anche le istituzioni più ottimiste.

Per i giovani che si sarebbero dovuti unire al mio gruppo di ricerca a Houston e che avevano bisogno di avviare le pratiche per un nuovo visto, il sogno americano è andato letteralmente in frantumi. Circa 300.000 sono stati gli Europei bloccati dentro o fuori dagli Stati Uniti, in attesa di ottenere un visto nuovo oppure per un semplice timbro di rinnovo sul passaporto. Ben 999 i giorni di attesa per il primo appuntamento disponibile in ambasciata americana, con esito, nella maggior parte dei casi imprevedibile. Potrei andare avanti per ore a raccontare la situazione paradossale che abbiamo vissuto e che mi ha indotto un giorno a fondare con due amiche un movimento, chiamato BringUShome (riportateci a casa), per riunire le vittime del travelban e raccogliere in un’unica voce la nostra richiesta di aiuto verso le istituzioni. Non solo gli Stati Uniti, anche l’Australia ha imposto misure rigide che hanno rappresentato un deterrente anche per i sognatori più accaniti.

Esiste una stima dell’investimento degli atenei italiani nei giovani talenti, ‘bruciato’ dalla scelta di tentare una carriera all’estero?

Difficile stabilire con esattezza quanti siano i cervelli in fuga. Tra il 2008 e il 2020, l’esodo di italiani alla ricerca di un ambiente in grado di supportare i loro talenti ha comportato una perdita complessiva di 259mila giovani, di cui il 29% laureati e 14.000 ricercatori. Secondo una stima la fuga dei cervelli costa all’Italia circa 14 miliardi di euro all’anno, equivalente a un punto percentuale di Pil.

Fare un’esperienza all’estero arricchisce mente e curriculum, ma ancora oggi per molti ragazzi è l’inizio di una carriera fuori dall’Italia. Quali sono i nodi più importanti da sciogliere per trattenere nel nostro Paese i ricercatori?

L’esperienza all’estero, che sia da ricercatore, professore o da studente, rappresenta un momento di crescita personale e professionale molto importante. Gli atenei italiani riconoscono questo aspetto e incentivano molto i giovani a intraprendere percorsi di studio o di ricerca al di là del confine. Esistono diversi programmi messe a disposizione dalle nostre università per supportare i giovani che vogliono mettersi alla prova lontano da casa, con una nuova lingua e ambienti di lavoro differenti. Io, ad esempio, da studentessa ho avuto l’opportunità di spostarmi tra università inglesi e spagnole grazie a programmi di scambio come l’Erasmus e il Leonardo da Vinci, per citarne alcune. Esperienze incredibili, in cui davvero si ha la possibilità di conoscere meglio se stessi, di esplorare le enormi possibilità (e sbocchi) che ogni disciplina offre.

Entrare in contatto con culture e con approcci alla scienza e alla tecnologia diversi da quelli a cui si è abituati è secondo me il primo passo verso l’acquisizione di una competenza che i ricercatori hanno l’obbligo di affinare: l’apertura alla novità. La scienza richiede conoscenza e si alimenta attraverso la curiosità di comprendere i processi più complessi. Perché un’idea si trasformi in innovazione è però necessario esporsi al rischio del fallimento, lasciare che le nostre idee vengano destrutturate e osservate da angolazioni diverse, esposte a occhi di esperti che operano in campi diversi. Criticate. Solo attraverso l’inter/multidisciplinarietà si raggiungono obiettivi che hanno un impatto reale a livello globale. Sembra un concetto semplice ma aprirsi alla novità significa scardinare le convinzioni che si sono stratificate nel tempo nei nostri atenei. E purtroppo questo aspetto non riguarda soltanto l’approccio alla scienza.

L’apertura di un sistema pretende, ad esempio, che si instauri una sana competizione tra i ricercatori, quella che ha il potere di tenerli aggiornati e affamati di scienza, di domande, di ricerca. La competizione sana, in un sistema aperto, spinge a dare il meglio di sé. Lavorare nella scienza all’estero oggi significa aumentare la produttività scientifica, affinare l’approccio multidisciplinare, imparare a comunicare l’argomento della propria ricerca attraverso lingue differenti e un’apertura mentale che spesso si scontra con il rispetto delle regole non scritte del sistema italiano. Quell’apertura mentale che ti fa capire che non c’è nulla da aspettare. Che non esistono liste di attesa da rispettare nella corsa all’innovazione. Non è la fedeltà al sistema che dovrebbe pagare nella scienza, piuttosto la capacità di sviluppare idee che abbiano il potere di fare la differenza.

Il cosiddetto tempo indeterminato, che rappresenta oggi un privilegio appannaggio di pochi, se combinato con la difficoltà di assegnare ruoli secondo uno schema meritocratico, è il nemico numero uno della produttività scientifica e il motivo per cui anche i giovani più promettenti perdono la speranza di una scienza sostenibile e lasciano il paese. Non sempre, certo, perché mi è capitato di incontrare in Italia professori affermati che continuano a vivere la scienza con la stessa passione di quando avevano vent’anni. Tanto per non generalizzare.

Lei ha mai pensato (e provato) a rientrare?

Nonostante mi sia formata in università e centri di ricerca molto prestigiosi tra l’ Europa e gli Stati Uniti, ho sempre fatto base in Italia. Fino al 2018. Qualche anno prima ero rientrata accettando un posto da ricercatore a tempo determinato, convinta che con le competenze acquisite, le collaborazioni nazionali e internazionali che avevo creato e con la mia caparbietà sarei riuscita a realizzare il sogno di fare scienza non troppo lontana da casa. Il paradosso vuole che nel 2017, quando mi nominarono tra le “100 eccellenze italiane”, varcai la soglia della Sala delle Donne a Montecitorio da disoccupata. Percepivo assegni di disoccupazione mentre continuavo a portare avanti le mie ricerche. A quanto pare, ero troppo giovane e non avevo i numeri. Cosí mi dissero. L’anno successivo lasciavo l’Italia alla ricerca di un ambiente che supportasse le mie ambizioni. A malincuore, devo dire la verità. Oggi sento la responsabilità di restituire all’Italia (che io adoro) quello che mi ha dato supportandomi negli studi e consentendomi di fare esperienze indimenticabili in giro per il mondo e affinare scienza, conoscenza e sogni. Ho voglia di farlo partendo dai giovani, perché sono loro a darmi la speranza che le cose possano ancora cambiare.

La sua carriera si è dipanata all’estero e ora in parallelo ha avviato un’attività di mentoring. Quali obiettivi si prefigge?

Ero piuttosto giovane quando la mia esperienza da docente universitaria è cominciata. Decisi di avviare il corso presentandomi a studenti e studentesse attraverso il percorso che mi aveva portato fin lì. Lo feci nel modo in cui la giovane me aveva sempre sognato, dosando bene i successi e gli insuccessi e raccontando loro i momenti in cui mi ero sentita sola di fronte alle difficoltà che il percorso scientifico impone, quelli in cui la meta ha i contorni sfocati e ci sembra di non essere abbastanza. Con quelle parole sono riuscita a normalizzare la sensazione di fallimento che prima o poi arriva, e a creare uno spazio di condivisione nel quale rifugiarsi.

Con il tempo ho scoperto che quelle parole hanno avuto un effetto potentissimo. Per questo, ho deciso di applicare le mie conoscenze scientifiche al modo di approcciare i giovani: stimolando il loro potenziale, facendolo emergere da una condizione di infiammazione cronica esacerbata dalle parole tossiche che parlano di attese, lungaggini burocratiche, impossibilità. Bisogna parlare loro delle infinite possibilità che la scienza offre, formare talenti correndo il rischio di perderli. Aiutarli a definire obiettivi utili ad affinare competenze ed elaborare un piano di attacco. I nostri giovani hanno bisogno di strumenti utili a navigare il mare increspato della scienza, per non sentirsi soli nei momenti di difficoltà. La scienza va insegnata attraverso l’esempio.

Far carriera nella scienza è più difficile per un uomo o per una donna, oggi?

Le ricercatrici nelle discipline Stem sono solo un terzo del totale. Eppure, nonostante il numero delle donne nella scienza debba ancora crescere, i successi femminili non si fanno attendere. Diverse iniziative a livello istituzionale, locale e globale, sono state intraprese per colmare la disparità di genere che nelle materie scientifiche è tuttora piuttosto evidente e incoraggiare la partecipazione delle donne nella scienza. Il divario si fa sentire dal punto di vista salariale e anche nel numero di donne che riescono a emergere nei ruoli di leadership – con piccole oscillazioni le posizioni apicali occupate dalle donne si attestano intorno al 20%.

Per una donna, la carriera scientifica impone tuttora una sfida contro gli stereotipi di genere: dimostrare che c’è altro rispetto all’aspetto fisico, che l’essere giovani non implica scarse competenze e che si può avere successo nella gestione o nel supporto della crescita personale di donne e di uomini. Con le nuove generazioni le cose stanno cambiando nella percezione della collaborazione necessaria e complementare tra uomini e donne nelle materie Stem. Io credo che non esista una competizione reale tra uomo e donna e non è necessario che le donne assumano un atteggiamento maschile per fare carriera. La bellezza sta proprio nella diversità. Capita spesso, però, e lo riporto come esperienza personale, di sedere a tavoli di discussione di materie scientifiche in cui gli uomini vengono presentati come “Dottori” e io come “Bruna”. Non esistono differenze tra Paesi da questo punto di vista.

Quanto è fondamentale riuscire a tenere nel nostro paese le sue menti più brillanti? E perché?

È essenziale. Perché rappresenterebbe un ritorno degli investimenti che l’Italia fa sull’educazione e la formazione di persone che oggi ricoprono posizioni leader nel mondo. I giovani e le giovani italiani che ricevo nel mio laboratorio dimostrano capacità critica, curiosità, competenze, e talenti incredibili. Hanno fame di imparare, di sperimentare. Di buttarsi in una nuova sfida e di farlo eccellendo. Pianificano esperimenti con grande attenzione a evitare sprechi, abituati a fare scienza in laboratori in cui molto spesso le risorse economiche scarseggiano. È capitato anche a me.

C’è da dire che la scienza prodotta in Italia è di grande livello e non ha nulla da invidiare a quella condotta in Paesi più ricchi. Sarebbe un sogno poter definire un piano attraverso il quale attrarre o trattenere le menti italiane e, anzi, mi metto a disposizione nel caso ci sia un interesse reale da parte delle istituzioni. Mi vengono i brividi a immaginare cosa potrebbe succedere se potessimo dare spazio agli scienziati italiani che ho incontrato all’estero durante il mio percorso, riunirli in una stanza per parlare di scienza. Realizzerebbero cose inimmaginabili, lo posso garantire. Riportiamoli a casa, definiamo un piano a lungo termine. La sfida vera non è convincerli a tornare, ma fare in modo di mantenere accesa la luce nei loro occhi, il vero motivo per cui chi torna spesso decide di ripartire. È proprio il caso di dirlo, BringUShome!

Qual è il messaggio che, attraverso Fortune Italia, vuole lasciare ai giovani italiani?

Il futuro è solo nelle vostre mani. La scienza è ora, non aspetta. Le vostre ambizioni non hanno tempo. E se avete bisogno di sentirvi meno soli, contattatemi! Parleremo di scienza e di sogni. Su con la vita!

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