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Aggressioni a medici e infermieri, numeri di un’emergenza

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Sono circa 2.500 i casi di violenza, aggressione o minaccia ogni anno a danno degli operatori sanitari italiani. Più di 12mila quelli accertati dall’Inail tra il 2016 ed il 2020.

Il bilancio arriva in occasione della “Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti degli operatori sanitari e socio-sanitari”, che da quest’anno ricorre ogni 12 marzo. Una Giornata voluta anche come una sorta di risarcimento per i medici e infermieri in prima linea contro Covid-19. “I numeri ufficiali – sottolinea Federazione Cimo-Fesmed – non possono includere i tanti, troppi, eventi non denunciati. Medici, infermieri e operatori sanitari, infatti, ormai ritengono le aggressioni verbali e le pressioni psicologiche parte del proprio lavoro; spesso hanno paura di ritorsioni da parte degli aggressori o preferiscono non puntare i riflettori sulle cause delle violenze quando sono legate a tempi e liste di attesa, che potrebbero “imbarazzare” le direzioni generali. Molti, allora, scelgono il silenzio, lavorando nella paura, che inevitabilmente influenza in senso negativo anche la relazione con i pazienti”.

È dunque impossibile quantificare davvero le aggressioni in sanità, che vanno ben al di là dei Pronto soccorso distrutti o delle violenze fisiche che finiscono sui giornali. “Per poter intervenire efficacemente, il fenomeno deve emergere con chiarezza – commenta Guido Quici, presidente della Federazione Cimo-Fesmed, Sindacato dei medici ospedalieri – Proporremo dunque all’Osservatorio nazionale sulla sicurezza degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie presso il ministero della Salute di istituire un punto di ascolto in cui denunciare le aggressioni anche in forma anonima”.

“Riteniamo inoltre necessario che le aziende organizzino corsi di formazione obbligatori per tutti i dipendenti su eventi sentinella, prevenzione e gestione di episodi di conflitto. Infine, oltre a stipulare protocolli operativi con le forze di polizia, sarebbe opportuno installare nelle aree più a rischio, come i Pronto soccorso, dei sistemi di videosorveglianza con adeguati strumenti che garantiscano la privacy. Sono solo alcune proposte, ma dobbiamo a tutti i costi trovare il modo per proteggere i colleghi”.

Gli Ordini dei medici celebrano oggi la prima Giornata a Bari. “Abbiamo scelto Bari perché è il luogo da cui è partita l’azione dell’Ordine e della Fnomceo di contrasto alla violenza contro gli operatori sanitari – spiega il presidente Filippo Anelli – A Bari infatti, nel settembre 2013, fu assassinata da un suo paziente la psichiatra Paola Labriola. Questo tragico episodio è stata la molla che ci ha spinti a dire ‘basta’, a smuovere l’opinione pubblica e la politica perché una tragedia simile non avesse a ripetersi. Oggi, quasi dieci anni dopo, abbiamo una legge per la sicurezza degli operatori, che ha inasprito le pene e introdotto la procedibilità d’ufficio, ha istituito un Osservatorio per il monitoraggio e la prevenzione e ha indetto questa giornata, con l’obiettivo di innescare una rivoluzione culturale che metta al centro la dignità dei professionisti”.

I dati Inail stimano in 2500 gli episodi di violenza denunciati ogni anno dagli operatori sanitari quale infortunio sul lavoro. “Un dato che, per quanto riguarda i medici, è sicuramente sottostimato. Infatti, le denunce Inail riguardano esclusivamente il personale dipendente e non quello convenzionato, come i medici di famiglia, le guardie mediche, i colleghi del 118, della libera professione, i medici penitenziari. Inoltre, molti medici non presentano denuncia, o non fanno ricorso al pronto soccorso per aggressioni che non provano lesioni. E queste sono sicuramente la maggioranza”.

“Secondo i dati resi noti dal sindacato dei medici dirigenti Anaao-Assomed il 55% dei medici ospedalieri ha subito almeno un episodio di violenza. Dai dati in nostro possesso emerge che il 48% dei medici che ha subito un’aggressione verbale ritiene l’evento ‘abituale’, il 12% ‘inevitabile’, quasi come se facesse parte della routine o fosse da annoverare tra i normali rischi professionali. Le percentuali cambiano di poco in coloro che hanno subito violenza fisica: quasi il 16% ritiene l’evento ‘inevitabile’, il 42% lo considera ‘abituale’. Dobbiamo tutti cambiare il nostro modo di pensare: la violenza – sostiene Anelli – non deve diventare un fatto normale, quasi banale, da accettarsi come rischio ineluttabile della professione. La violenza non è inevitabile: la violenza è un reato. È una violazione dei diritti umani, della dignità della persona; è un’ingiustizia sia a livello pubblico che privato. A questo dobbiamo educare le nuove generazioni”.

Gli infermieri sono i professionisti della sanità “in assoluto più colpiti dagli atti di violenza sugli operatori sanitari. L’89% è stato vittima di violenza sul lavoro e nel 58% dei casi si è trattato di violenza fisica: hanno subito violenza in generale sul posto di lavoro circa 180mila infermieri e per oltre 100mila si è trattato di un’aggressione fisica”, precisano dalla Fnopi (Federazione nazionale Ordini delle professioni infermieristiche).

La situazione poi si sta aggravando perché, durante la pandemia, si sono create situazioni come quelle in cui non è stato possibile far avvicinare persone ai ricoverati che ha generato fortissime tensioni e numerose aggressioni. Ci sono poi i no-vax che sono autori di continue aggressioni e minacce, anche di morte.

Di tutte le aggressioni al personale sanitario secondo l’Inail, il 46% riguarda infermieri e il 6% a medici. “Quindi le aggressioni a infermieri sarebbero circa 5.000 in un anno (anche se spesso quelle verbali non sono neppure denunciate), 13-14 al giorno in media. Ma le mancate denunce e gli episodi non rilevati dimostrano che il numero è sicuramente sottostimato e in realtà le violenze (verbali e fisiche) sono almeno 10-15 volte più numerose”.

Per questo, grazie al co-finanziamento della Fnopi, è stato realizzato da otto Università italiane lo studio nazionale multicentrico sugli episodi di violenza rivolti agli infermieri sul posto di lavoro. Dalla ricerca – i cui dati complessivi saranno presentati all’Osservatorio contro la violenza sul personale sanitario – emerge che più della metà (il 54,3%) ha segnalato l’episodio, ma chi non l’ha fatto (l’altra metà) si è comportato così perché, nel 67% dei casi ha ritenuto che le condizioni dell’assistito e/o del suo accompagnatore fossero causa dell’episodio, nel 20% dei casi era convinto che tanto non avrebbe ricevuto nessuna risposta da parte della struttura in cui lavora, mentre il 19% ritiene che il rischio sia una caratteristica attesa/accettata del lavoro e il 14% non lo ha fatto perché si sente in grado di gestire efficacemente questi episodi, senza doverli riferire.

Le conseguenze in un’aggressione ci sono sempre: il 24.8% degli infermieri che ha segnalato di aver subito violenza negli ultimi 12 mesi, riporta un danno fisico o psicologico, e per il 96.3% il danno è a livello psicologico, compromettendo spesso anche la qualità dell’assistenza. Il 10.8% dichiara poi che i danni fisici o psicologici hanno causato disabilità permanenti e modifiche delle responsabilità lavorative o inabilità al lavoro. Ma la conseguenza professionale prevalente riguarda il “morale ridotto” (41%) e il “burnout” (33%).

“La prevenzione degli episodi di violenza a danno degli operatori sanitari – sottolinea Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi – richiede che l’organizzazione identifichi i fattori di rischio per la sicurezza del personale e ponga in essere le strategie organizzative, strutturali e tecnologiche più opportune, diffonda una politica di tolleranza zero verso atti di violenza nei servizi sanitari, incoraggi il personale a segnalare prontamente gli episodi subiti e a suggerire le misure per ridurre o eliminare i rischi e faciliti il coordinamento con le Forze dell’ordine o altri oggetti che possano fornire un valido supporto per identificare le strategie per eliminare o attenuare la violenza nei servizi sanitari. Solo l’impegno comune può migliorare l’approccio al problema e assicurare un ambiente di lavoro sicuro. E questo studio è il primo passo”.

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