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Diagnosi precoce e terapia genica, un’accoppiata vincente anche per il deficit di AADC

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La conosciamo dagli anni ’90, quindi possiamo considerarla ancora una malattia relativamente giovane. In letteratura sono stati descritti circa 150 casi di deficit di AADC (deficit di decarbossilasi degli L-aminoacidi aromatici), ma gli studi di previsione suggeriscono una frequenza che oscilla tra 1/60.000 e 1/160.000 nuovi nati, e a Taiwan, dove si utilizza lo screening neonatale per individuarla, la frequenza è di 1/30.000. Per il prof. Vincenzo Leuzzi, ordinario di neuropsichiatria infantile alla Università la Sapienza di Roma, “siamo in presenza di una discrepanza tra frequenza attesa e reale, che può essere ricondotta  alla complessità della malattia, ancora non ben conosciuta. E come è noto – aggiunge -, si riconosce bene ciò che si conosce”.

Le malattie rare conosciute sono ormai circa 9.000, con una frequenza cumulativa da 1,5 a 6,2/100 della popolazione generale, molte delle quali, almeno il 40%, di origine genetica. Anche per i clinici più attrezzati, quindi, è impensabile conoscerle tutte. “Ci si aiuta risalendo dal quadro sindromico alla lesione causa del disturbo”. In altre parole, “si utilizza un cluster di sintomi per risalire ad un cluster di geni”. Nel caso del deficit di AADC, per esempio, si riscontra un deficit della motilità spontanea – i bambini colpiti dalla malattia sono ipocinetici -, che dipende dalla sintesi insufficiente di un neurotrasmettitore, la dopamina, a sua volta riconducibile al deficit di AADC e al difetto genetico che ne è la causa.

Sino a pochi anni fa la diagnosi di questa malattia richiedeva un esame sul liquor cefalo-rachidiano, prelevato attraverso una puntura lombare. Un esame invasivo, richiesto con una certa prudenza, soprattutto per bambini che non mostrano ancora un quadro sintomatologico chiaro, né di particolare gravità, come avviene in genere agli esordi della malattia. I campioni vanno poi inviati in laboratori specializzati, rispettando particolari condizioni per il trasporto, a -80 °C. E in Italia, al momento, sono solo due i laboratori in grado di effettuare questo tipo di indagine, ma non si tratta di un problema solo italiano, visto che anche la Francia, per esempio, dispone di un solo laboratorio attrezzato a questo scopo.

Tutto ciò spiega perché la diagnosi arriva spesso con un ritardo significativo, intorno ai tre anni, nonostante l’esordio della malattia si registri nei primi mesi di vita.

La svolta è arrivata di recente, con l’individuazione di alcuni marcatori periferici di semplice individuazione, come la 3-O-metildopa o il 5-idrossitriptofano. La ricerca della 3-O-metildopa può essere effettuata attraverso lo stesso prelievo di sangue utilizzato per lo screening neonatale, la ricerca del 5-idrossitriptofano si utilizza, invece, per confermare la diagnosi. Opportunità che aprono a scenari promettenti per garantire una diagnosi precoce. Questi marcatori sono utili, inoltre, per giungere ad una diagnosi certa nei pazienti adulti per i quali non si dispone ancora di una diagnosi eziologica specifica.

Quanto alle terapie, quelle farmacologiche sono le stesse utilizzate per gli adulti, ma funzionano solo nel 25% dei casi. Il futuro di molte malattie genetiche, compresa il deficit di AADC, sarà la terapia genica. C’è già una terapia genica che ha dimostrato di funzionare nel modello murino, e i dati in letteratura sembrano promettenti anche per i bambini trattati nella fascia di età compresa tra 2 e 6 anni. Attendiamo, ora, le valutazioni dell’EMA.

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