Covid, il prezzo salato delle mascherine irregolari

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Mascherine irregolari anti-Covid di nuovo alla ribalta. Questa volta per gli enormi costi a carico dei contribuenti: quasi 700 milioni di euro per il solo smaltimento. A cui si aggiungono i 313 mila euro mensili per lo stoccaggio, ormai dal 2020.

Tutto trova riscontro nella determina del 16 febbraio scorso firmata dall’ex commissario per l’emergenza Generale Francesco Paolo Figliuolo (l’incarico è terminato il 31 marzo in coincidenza con la cessazione dello stato di emergenza). Ma andiamo con ordine. A febbraio-marzo 2020, siamo a inizio pandemia, e i beni più preziosi sul mercato sono gel disinfettante per le mani e mascherine anti-contagio. Di queste ultime non se ne trova più nemmeno un pezzo in giro. Neanche online, dove i prezzi schizzano alle stelle.

Il Governo Conte decide di nominare commissario per l’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri, già numero uno di Invitalia. Il quale, tra le azioni intraprese per fronteggiare una pandemia tanto grave quanto inattesa, cerca di recuperare dove e come può mascherine e altri dispositivi di protezione individuale. Arriva anche a ordinare dalla Cina le famose “mascherine di comunità”, cioè quelle non chirurgiche ma con potere filtrante molto più blando. E soprattutto non certificate. Ai tempi, come si dice a Milano, “piuttosto che niente era meglio piuttosto”, e il loro uso era consentito dal decreto legge “Cura Italia”.

Così ne arrivarono in Italia circa 800 milioni. In parte utilizzate, in parte no. Tanto che dal 2020 oltre 218mila pezzi restano stoccati nei magazzini della Sda localizzati al Nord e al Centro Italia. Al costo di 313mila euro al mese. Calcolando la spesa dello Stato, fosse anche solo per il 2021 e i primi 3 mesi del 2022, ciò significa oltre 4,6 milioni di euro pagati dai contribuenti per la giacenza di beni non più utilizzabili.

Il perché è scritto nero su bianco nella determina: “Non sono mai state richieste né dalle Regioni né dagli altri enti convenzionati”, probabilmente perché col passare del tempo erano tornate nuovamente disponibili le mascherine chirurgiche certificate, naturalmente preferite da operatori sanitari e personale civile. Oggi tutte queste mascherine “non trovano più alcuna possibilità di impiego”, il loro utilizzo “non è più consentito dalle norme in vigore, in quanto trattasi di dispositivi non certificati con scarsa capacità filtrante non conformi ai requisiti di legge”. E nemmeno interessano nessuno per l’acquisto. Ben due indagini di mercato – una a giugno e una a ottobre dello scorso anno – finalizzate a verificare l’interesse di eventuali operatori economici andarono completamente deserte.

Non resta che smaltirle, si tratta di circa 2.500 tonnellate, al modico prezzo di 698mila euro più Iva. Se ne occuperà A2A, vincitrice della gara pubblica a cui partecipò solo un altro operatore (Hera). Rimane invece ancora aperto il capitolo relativo ai 40mila metri cubi di materiali vari, tra cui “dispositivi di protezione individuali e rotoli di melt blow con vita tecnica scaduta e/o certificazioni non idonee e dispositivi di protezione individuali muniti di validazione del Comitato tecnico scientifico, non più idonei per mancata proroga dei termini di cui all’art. 5-bis, comma 2, del decreto legge n. 18/2020”, per il cui stoccaggio lo Stato sta pagando ben 1,07 milioni di euro al mese.

Tutto riportato nella determina del 13 marzo 2022 con cui Figliuolo cerca operatori interessati all’acquisto di questi materiali, anche per lotti. Resta ora da capire se qualcuno si farà avanti. Magari per riciclare il meltblow per ricavarne altro rispetto alle mascherine. Diversamente ci sarà probabilmente un’altra gara per aggiudicarsi l’appalto per lo smaltimento. Anche in questo caso a spese dei contribuenti.

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