La crisi dei medici e quella dei pronto soccorso

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Mentre si moltiplicano allarmi – e smentite – su pronto soccorso super affollati dopo il caso Cardarelli, torna alla ribalta la crisi – reale – dei camici bianchi. I medici italiani, dopo due anni di Covid-19, sono allo stremo. Ma il problema sembra essere diffuso anche oltre confine.

In generale in Europa negli ultimi anni i medici hanno dovuto fronteggiare un carico di lavoro eccessivo, per una professione svilita nel suo ruolo sociale, per la mancanza di crescita e soddisfazione professionale e di una via di fuga intesa come cambiamento di luogo di lavoro. Ma in questo quadro ha un peso anche la retribuzione economica insoddisfacente rispetto all’impegno e alla fatica quotidiani e la pandemia da Covid-19.

Lo testimonia l’identikit del medico europeo che emerge dalla recente indagine Anaao-Fems (Federazione Europea Medici Salariati) condotta da Alessandra Spedicato, capo delegazione Anaao Assomed nella Federazione su 12 Paesi: Austria, Cipro, Croazia, Francia,  Germania, Italia, Portogallo, Romania, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia.

Una ‘fotografia’ realizzata intervistando 13.461 medici di cui 7.447 donne e 6.014 uomini. È interessante notare come le donne abbiano risposto in maggioranza in tutti i Paesi tranne che in Germania (dove la maggioranza è stata dell’86% maschile con 180 uomini – 30 donne), in Italia (leggerissima maggioranza: 1642 uomini – 1640 donne) e in Romania (leggera maggioranza: 6 uomini – 5 donne).

“Questa indagine ha un significato che va ben oltre l’assegnazione di un palmarès a paesi virtuosi quali Germania, Austria e Svezia, – commenta Alessandra Spedicato – Piuttosto va segnalato come anche alle mediche e ai medici europei rimane una sola possibilità, e cioè il licenziamento, una scelta ben evidenziata dal recente studio Anaao sul fenomeno della Great Resignation”. Il servizio nella struttura dove si lavora è giudicato soddisfacente ma quasi ovunque il servizio stesso è peggiorato negli ultimi 10 anni e questo è dovuto principalmente agli eccessivi carichi di lavoro per mancanza di personale.

In Europa c’è un’isola felice rappresentata da tre Paesi: Germania, Svezia e Austria. “Qui la possibilità di crescita professionale è buona, la retribuzione è considerate soddisfacente, buona la formazione, facile la possibilità di passare dalla dipendenza alla libera formazione”.

Ai medici intervistati è stato chiesto, fra l’altro, di dare un giudizio su un aspetto (tra i dodici presentati) che incide sulla qualità dei servizi sanitari. Per il 58% i carichi di lavoro sono troppo pesanti per mancanza di personale; successivamente un altro aspetto che incide sulla qualità dei servizi sanitari sono le retribuzioni inadeguate (33%); infine c’è un 9% che ritiene che nella qualità dei servizi incidono negativamente gli scarsi investimenti nelle strutture.

Andando a indagare in maniera più articolata il livello di soddisfazione economica, professionale e di benessere nel posto di lavoro, il 92% dei partecipanti non ritiene che il compenso economico sia adeguato all’impegno richiesto al medico dipendente (con unica eccezione, ancora la Germania) che per il 50% lavorare in una struttura sanitaria significa rinunciare alla vita privata; che il 41% pensa che il ruolo svolto dal medico dipendente ha uno scarso riconoscimento a livello sociale; altrettanto scarso è il coinvolgimento dei medici dipendenti nella politica sanitaria e di gestione (50%); mentre il 59% vive come troppo forte la dipendenza del singolo medico dalle gerarchie professionali e amministrative; infine per il 66% del campione molte norme finalizzate a migliorare la sicurezza e la qualità delle cure sono in realtà strumenti volti a ridurre i costi.

La propria retribuzione viene valutata poco soddisfacente dal 66% dei medici europei (il 90% delle donne medico europee intervistate ritiene la propria retribuzione inadeguata) mentre i medici tedeschi coerentemente con quanto affermato in precedenza si dichiarano soddisfatti, così come gli svedesi e gli austriaci. A questi si aggiungono i croati.

Insomma, l’insoddisfazione dei medici è generale. E forse non è un caso che in Italia si aggiunga a questa crisi quella dei pronto soccorso. Una situazione diffusa, visto che le segnalazioni stanno arrivando un po’ da tutte le Regioni, le cui motivazioni non sono legate però, come in fase pre-Covid, al picco della stagione influenzale. Ma cosa sta succedendo? Non si trovano medici (e infermieri) specializzati nell’emergenza e disposti a lavorare in pronto soccorso, è stato detto. Ma forse si tratta, anche, di un problema di organizzazione, almeno secondo la Federazione Cimo-Fesmed.

“Comparando i dati di accesso giornalieri disponibili sul portale Agenas con i corrispettivi del 2018 ed il 2019, si scopre che solo in Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Trentino Alto Adige e Toscana ci sono stati più accessi; nelle Regioni al centro delle cronache la differenza di ingressi in Pronto soccorso tra 2022, 2018 e 2019 (in un momento dunque precedente al Covid) è negativa: in Campania il 9 maggio 2022 ci sono stati 1677 accessi in meno rispetto al 2019 e 1780 in meno rispetto al 2018; in Piemonte il 10 aprile ci sono stati 4424 accessi in Pronto soccorso in meno rispetto al 2019 e 4779 rispetto al 2018; il Lazio il 9 maggio ha registrato 610 accessi in meno rispetto al 2019 e 776 in meno rispetto al 2018, e così via”, spiegano dalla Federazione.

Quelle denunciate negli ultimi giorni sono “situazioni intollerabili, ma purtroppo all’ordine del giorno in tutta Italia da anni, frutto di tagli irrazionali a posti letto, strutture e professionisti. Né Covid-19 può essere una giustificazione, considerato che oggi influisce in maniera residuale sui ricoveri: a livello nazionale risultano occupati da pazienti Covid il 4% delle terapie intensive ed il 13% delle aree non critiche. Sorge allora il dubbio che l’indisponibilità di posti letto per ricoverare i pazienti dal Pronto soccorso possa essere legata anche alla lentezza con cui gli ospedali si adeguano alla situazione epidemiologica: non sarà che molti posti letto sono ancora destinati a Covid-19, che non vengono riconvertiti nonostante la pandemia offra uno spiraglio di tregua? Non sarà che i Pronto soccorso esplodono e che altre aree ospedaliere sono vuote?”, chiedono da Cimo-Fesmed.

Un quesito che ne apre un altro: perché il sistema di monitoraggio dei ricoveri adottato per Covid-19 non viene esteso a tutta l’attività ospedaliera? Maggiore trasparenza aiuterebbe pazienti, direzioni ospedaliere e Istituzioni che, disponendo di informazioni costantemente aggiornate, potrebbero adottare le misure necessarie a migliorare l’assistenza e a ridurre i tempi di attesa, dirottando l’assistenza nei settori in cui c’è maggior bisogno.

“Sono ormai anni che la Federazione sottolinea la necessità di strutture ospedaliere flessibili, che siano in grado di modificare la propria organizzazione sulla base delle necessità – dichiara il ‘residente della Federazione Cimo-Fesmed Guido Quici – I pazienti con Covid-19 che necessitano di ricovero in queste settimane sono meno rispetto ai mesi scorsi, e presumibilmente il trend continuerà ad essere questo per tutta l’estate”. Ecco allora che questo è “il momento di lavorare per recuperare milioni di prestazioni saltate negli ultimi due anni, con la consapevolezza di dover essere pronti, in autunno, ad allestire nuovamente reparti Covid nel caso il virus tornasse a rialzare la testa. Ma nel frattempo non è possibile rimanere in attesa che si verifichi un’eventualità. Bisogna agire, e fare presto”.

Insomma, l’idea è quella di far tesoro della lezione della pandemia e studiare una sorta di servizio flessibile, da tarare sulla base della situazione che si viene a creare. Una strategia che però deve necessariamente poter poggiare sulla presenza di medici (e infermieri) specializzati e soprattutto motivati, primo pilastro di un pronto soccorso che funzioni davvero.

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