I manager e la sindrome dell’impostore

donna manager in crisi
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“Non mi sento all’altezza”. Prima ancora che il mondo giudichi l’operato di un manager, soprattutto se donna, non bisogna fare l’errore di guardare la vita con questa frase. Ci vuole niente a trovarsi a soffrire della “sindrome dell’impostore”, una particolare fragilità psicologica che porta chi ne soffre a pensare ingiustamente di dovere il proprio successo professionale alla buona sorte o, peggio, a vie meno ortodosse per la scalata ai vertici lavorativi.

Attenzione. Questo non significa non doversi mai fermare, fare un esame di coscienza, valutare dove e come si potrebbe migliorare senza necessariamente affrontare la professione come veri e propri “Highlander”. Ma non conviene buttarsi giù, anche se capita spesso, soprattutto tra le donne. In un percorso che, se non correttamente affrontato, può anche aprire la strada all’umore cupo, alla scarsa autostima e, in chiave psicologica, alla depressione.

Questo particolare fenomeno non è nuovo nel mondo del lavoro. Già più di quarant’anni fa, nel 1978, due psicologhe come Pauline Clance e Suzanne Imes, hanno definito un quadro che davvero andrebbe messo nel dimenticatoio, alla luce dello sviluppo compiuto della leadership femminile che sta avanzando nel mondo delle aziende.

Alla base del quadro ci sarebbe appunto la sensazione di essere inadeguate per il ruolo di vertice che si ricopre, con conseguente insicurezza e ansia per le donne manager che sfociano appunto nell’umore cupo. Sul tema, oggi, arriva una curiosa ricerca che prova a sfatare pregiudizi e soprattutto “autovalutazioni” inconscie ma impattanti sulla psiche che non hanno ragione di essere. E’ uno studio condotto dagli psicologi dell’Università Martin Luther Halle-Wittenberg, coordinati da Kay Brauer, che ha coinvolto attraverso test di intelligenza e la somministrazione di feedback positivi, indipendentemente dalle loro prestazioni, 76 persone.

Alla fine di questa analisi è stato chiesto ai partecipanti di giudicare i motivi del loro successo. Chi si sentiva “impostore”, pur senza esserlo, manifestava una sorta di scarsa autostima indipendentemente dal valore oggettiva delle proprie prestazioni. Ma non basta. L’analisi dei risultati dimostra chiaramente che chi ha la tendenza al fenomeno dell’impostore è portato a sminuire la propria prestazione, alla faccia della valutazione oggettiva, attribuendo piuttosto i risultati positivi a cause esterne come fortuna e caso, ma non alle proprie capacità.

Secondo gli esperti, non siamo di fronte ad una vera e propria condizione patologica, ma la sindrome dell’impostore può anche sfociare in quadri di depressione, visto che chi presenta queste stigmate psicologiche sarebbe maggiormente esposto al rischio.

Per questo occorrono programmi di formazione destinati a chi sta crescendo in termini di carriera, ai futuri manager dunque, per togliere il dubbio di una possibile inadeguatezza autopercepita ma non effettiva, con l’obiettivo di migliorare l‘autostima, la soddisfazione sul lavoro e il benessere generale delle persone colpite.

Sia chiaro: nella vita reale, pur se si ha la sensazione che la sindrome venga decodificata soprattutto in chiave di genere, il fenomeno può colpire sia uomini che donne, ad ogni età. E a prescindere dall’intelligenza.

Abituiamoci quindi a superare l’auto-understatement, che può portare a credere che i successi non sono un prodotto delle nostre capacità o del nostro lavoro, senza attribuirli alla fortuna o alla sopravvalutazione altrui. La nostra psiche ne guadagnerà. Ed anche la nostra attività professionale. Spesso ci sentiamo impostori senza alcun motivo per essere considerati tali.

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