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UP Arena: Evitare abusi di potere

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Up Arena è una piattaforma che i giovani potranno usare per esprimere le proprie opinioni, confrontarsi e contribuire al progresso della società. Il format prevede interviste doppie e discussioni approfondite. Abbiamo deciso di confrontarci su un tema molto dibattuto tra i giovani: il codice identificativo per le Forze dell’ordine.

 

Studenti che protestano e agenti di polizia: non è mai semplice discernere l’uso moderato o esagerato della forza nella gestione dell’ordine pubblico. Si discute di codici per identificare poliziotti in servizio. Ecco la domanda che abbiamo posto ai due giovani che leggete: sei favorevole o contrario al codice identificativo?

 

Il 24 febbraio, dopo i cortei di Pisa e Firenze finiti con studenti minorenni manganellati, in certe bolle social circolava un meme. Il ghigno di uno dei poliziotti intenti a caricare la manifestazione pisana veniva zoomato fino a rivelare una faccia: quella di Rosario Fiorello. La somiglianza c’era, in effetti, il sorriso era quello. Ma, meme a parte, a meno di rivelatorie e miracolose indagini interne che lo portino a processo, non sapremo mai il nome di quel poliziotto. Per quel che ne sappiamo, poteva essere davvero Ciuri.

L’unico modo che abbiamo perché si accerti la responsabilità dell’agente in tenuta antisommossa in quella circostanza, per ora, è che il ‘poliziotto del ghigno’ sia uno dei pochi che si sono autoidentificati.

L’introduzione di un codice identificativo per gli agenti porterebbe, appunto, a qualcosa che già vale per i loro superiori e persino per la magistratura: la possibilità di essere chiamati a chiarire le proprie responsabilità di fronte a errori evidenti o ad abusi di potere. Perché, purtroppo, ora come ora è necessario che sia qualcuno di esterno alle istituzioni a farlo. Sarebbe bello potersi fidare dell’innata sincerità delle Forze dell’ordine e dello spirito di autocritica che regna sovrano dalle parti del Viminale. Purtroppo, però, davanti casi di abusi in divisa tanto lo Stato, quanto i sindacati di polizia hanno dimostrato di non essere inclini a riconoscere le proprie responsabilità se non costretti da prove inconfutabili.

Queste prove, di solito, trovano spazio in sede processuale (come nei quindici gradi di giudizio necessari a stabilire la verità sull’assassinio di Stefano Cucchi) o in inchieste giornalistiche (come nel caso dei pestaggi selvaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, a noi noti solo grazie alle immagini divulgate dal quotidiano Domani). O, ancora, in video girati per puro caso, come per il pestaggio a Milano di Bruna, donna transgender presa a calci da sette vigili. Mai nei comunicati stampa o nelle interrogazioni parlamentari. Perché, al contrario di quanto teme la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al momento non c’è alcun rischio che le istituzioni smettano di coprire le spalle degli agenti, specie delle cosiddette ‘mele marce’. Quelle, spesso, sono le più protette di tutte. Che altro motivo ci sarebbe, altrimenti, di compattarsi intorno al rifiuto di un codice identificativo?

Questa misura non risolverebbe certo il problema degli abusi in divisa, che hanno a che vedere con la formazione repressiva delle Forze dell’ordine più che con i singoli episodi. In molti Paesi in cui esiste già le violenze ingiustificate esistono ancora. Ma questo codice sarebbe un primo passo verso il riconoscimento di un principio semplice: chiunque lavori per lo Stato e commetta un abuso deve assumersi le proprie responsabilità, senza nascondersi nella nebbia delle istituzioni da cui è protetto. 

*Pietro Forti studia alla Scuola di giornalismo di Perugia. Dal 2016 al 2022 è stato caporedattore di Scomodo. Con Simone Martuscelli cura Buone Intenzioni, podcast-newsletter sulla politica italiana.

 

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