Binge eating tra pandemia e social, ecco cosa sta cambiando

Edoardo Mocini Fortune Italia
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Negli anni più duri della pandemia c’è stata un’impennata di disordini alimentari fra i giovanissimi. E adesso? “Alle patologie più note, come anoressia nervosa e bulimia nervosa, si è aggiunto il disturbo dell’alimentazione incontrollata, ovvero il binge eating: si tratta del problema più trascurato, perché i pazienti a volte non riconoscono l’abbuffata come un sintomo, ma lo vedono come una manifestazione di debolezza, del fatto che non hanno saputo resistere”. Parola di Edoardo Mocini, medico dietologo e ricercatore di Università Sapienza e Policlinico Umberto I di Roma, divulgatore su Instagram e autore di ‘Fatti i piatti tuoi. Come orientarsi tra i falsi miti su alimentazione e forma corporea per prenderci cura della nostra salute’ (Rizzoli).

Tra abbuffate e disturbi sotto soglia

Il binge eating, spiega Mocini a Fortune Italia, “era relegato a una ‘semplice condizione di obesità’, anche per via dello stigma del corpo grasso. Così capita di incontrare pazienti che sono passati per diversi specialisti, ma non sono stati riconosciuti. E questo perchè non c’è consapevolezza del binge eating”. Non mancano nemmeno “diagnosi errate, in persone che in effetti fanno fatica ad aderire a un certo stile di vita, ma il binge eating è davvero molto sottovalutato, anche nell’offerta di una tipologia mirata di percorsi di cura da parte dei centri”.

Inoltre in questi anni “è aumentata la prevalenza di persone con disturbi alimentari sotto soglia, con difficoltà e comunque un malessere, ma che non rientrano all’interno di categorie diagnostiche precise. Un problema, perché pur essendo meno a rischio rispetto a persone gravemente sottopeso o obese, si trovano ad essere escluse dai percorsi diagnostici e terapeutici”. Ecco, queste persone “rischiano di finire nelle mani di operatori non qualificati, in cerca di una risposta”, avverte Mocini che parla di una vera e propria giungla di servizi nella libera professione.

“Mi sono trovato spesso a iniziare percorsi multidisciplinari in persone con disturbi non specificati, che si sono presentate con la domanda ‘voglio dimagrire’, ma invece ad esempio vomitavano una volta al mese”.

Le età della fragilità e i social media

“Dal punto di vista statistico alcuni disturbi di questo tipo si manifestano tra la fine delle scuole medie e i primi anni di liceo. Si entra in rapporto con il mondo e ci si scopre più fragili, manchevoli rispetto agli obiettivi che la società ci impone in termini di forma corporea. C’è un cortocircuito legato al fatto che la società dei media ci bombarda con modelli sempre più pressanti e impattanti”.

Mocini punta il dito sui social media. “E’ vero che si è allargato l’immaginario collettivo sui corpi, ma la rappresentazione nel nostro quotidiano si è moltiplicata. Abbiamo device e smartphone in mano 24 ore su 24 che ci espongono continuamente a modelli estetici” sfidanti o impossibili. Insomma, se non c’è più “il modello unico e terribile di corpo degli anni ’90 – dice l’esperto – un ragazzino di 14 anni oggi viene bombardato” su tutti i fronti.

I social media “si sono aggiunti alla televisione, che già produce un immaginario potente nei giovanissimi. Poi ci sono gli schermi, il pc, i cartelloni: la società delle immagini non da’ tregua e l’esposizione si moltiplica. Questo non significa criticare a priori i social, ma invitare a porre rimedio rappresentando tutti i corpi possibili”.

Campanelli d’allarme

Il primo segnale “sono le oscillazioni del peso: se c’è una perdita o un aumento del peso del 10% nell’arco di pochi mesi è bene fermarsi un attimo e parlarne. Sempre con delicatezza e in maniera non colpevolizzante”, sottolinea Mocini. “Dobbiamo essere consapevoli del fatto che, nel corso della vita, il corpo cambia. Noi osserviamo e ci rivolgiamo al medico per capire se c’è qualcosa che non va”.

“Ricordiamo anche il valore conviviale del cibo: mangiamo con i nostri figli e cuciniamo con loro”, suggerisce lo specialista. “E’ un modo per imparare a nutrirci e prenderci cura di noi stessi, dando il buon esempio”.

Cure costose e poco redditizie

“In questi anni abbiamo assistito a una maggiore pressione sui servizi, sia quelli pubblici che privati. Putroppo non c’è stato un aumento dell’offerta e dunque l’accesso ai servizi è complicato. L’approccio aziendalista alla sanità – riflette l’esperto – poco si confà a queste patologie, che sono complesse, di lunga durata e che richiedono diverse professionalità. Insomma sono cure costose e poco redditizie”.

“Anche a livello territoriale ci troviamo con una grande variabilità: a fare la differenza non è solo la Regione in cui si vive, ma anche la Asl di competenza”, conclude Mocini. C’è davvero bisogno di ripensare all’organizzazione di servizi complessi, che però sono essenziali per dare risposte a bisogni esplosi in questi anni. 

 

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