Antimicrobico resistenza e tumori, l’analisi di Giovanni Di Perri

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L’insorgenza di una infezione in un paziente fragile, come per esempio un paziente oncologico, è sempre un evento temibile, lo è ancor di più se l’infezione è causata da un germe multiresistente. La gestione clinica si complica, mettendo in discussione ciclo terapeutico e prognosi, a volte anche con esiti infausti. Abbiamo proseguito la nostra riflessione sul burden clinico delle infezioni da germi multiresistenti in pazienti fragili con il professor Giovanni Di Perri, ordinario di Malattie infettive all’Università di Torino e direttore della Divisione Universitaria di Malattie infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia di Torino.

  1. Professore, può tracciarci un quadro d’insieme del burden clinico delle infezioni da germi multiresistenti nei pazienti oncologici? Quali sono, in particolare, gli elementi che incidono maggiormente su di esso?

Dobbiamo considerare che quello dei pazienti oncologici è un contesto particolarmente vulnerabile, per una serie di motivi. Innanzitutto di cancro, per definizione, ci si ammala soprattutto in una certa fascia d’età. In secondo luogo, ci sono da considerare gli aspetti immunosoppressivi o, comunque, di generale vulnerabilità legata alla malattia neoplastica stessa, di vario tipo. Ricordiamo in particolare i tumori del sangue, ma anche quelli solidi, che possono essere associati, appunto, a un maggior grado di vulnerabilità alle infezioni. Ancora, dobbiamo considerare il grosso capitolo della terapia antineoplastica, a partire dal vecchio modello del neutropenico per la chemioterapia citostatica convenzionale, sino ad arrivare all’armamentario biologico attuale, che incide su determinate funzioni, riducendole. A tutto questo si associa, ovviamente, una particolare predisposizione, che a volte si caratterizza per una definita connotazione nosologica, altre volte fa riferimento ad un ambito più generico di immunodepressione. È chiaro, però, che siamo di fronte ad un malato che ha una certa età, che spesso il cancro immunodeprime, e che la terapia molto spesso incide ancora più del cancro stesso.

E tutto questo favorisce nel rapporto con i germi multiresistenti una condizione di particolare fragilità?

Certamente sì. Innanzitutto, rispetto alla colonizzazione, perché ovviamente molto spesso si tratta di pazienti ospitati in ambienti ospedalieri. E quindi l’impoverimento anche transitorio delle difese mucosali si traduce in un aumento dell’incidenza di infezioni. Non solo, negli ultimi quarant’anni abbiamo imparato che germi che una volta consideravamo contaminanti in realtà finiscono per avere un ruolo nelle gravi malattie neoplastiche. La scienza moderna ci consente di curare malattie gravi, come quelle neoplastiche, anche in soggetti in età avanzata, è chiaro quindi che così creiamo un ospite particolarmente vulnerabile e suscettibile, che prima non esisteva. E tutto questo spiega perché germi una volta considerati contaminanti oggi sono a pieno titolo protagonisti di infezioni nosocomiali, in ospiti, appunto, vulnerabili.

  1. Quanto pesa il quadro che ha appena descritto nell’evoluzione della patologia oncologica?

 

 

Pesa in varie direzioni. Ovviamente può essere motivo di decesso del paziente, magari all’interno di un percorso che poteva portare al controllo della neoplasia. Non dimentichiamo che il problema è anche figlio del successo delle terapie oncologiche, perché oggi si curano molte neoplasie in più, e la sopravvivenza è aumentata. È chiaro che la qualità della vita spesso deve fare i conti anche con periodi critici, di sofferenza, nei quali le infezioni possono fare il loro ingresso. La cura di un’infezione può comportare, per esempio, il ritardo nella periodicità del ciclo terapeutico antineoplastico, quindi, a prescindere dal danno che può fare in termini di rischio di vita bisogna valutare le conseguenze sulla continuità terapeutica antineoplastica. Il peso di un’infezione, in particolare da germi farmaco resistenti va considerato anche da questo punto di vista. Le infezioni da germi farmacoresistenti richiedono uno sforzo maggiore, spesso richiedono l’uso di farmaci magari non facili da reperire, insomma ci sono tutta una serie di aspetti che vanno considerati.

Quali sono le strategie di contrasto più efficaci che si possono mettere in campo in ambiente ospedaliero per fronteggiare l’antimicrobico resistenza?

Innanzitutto è necessaria una certa idoneità strutturale dell’ospedale stesso, nel senso che  deve essere provvisto di tutta una serie di aspetti, appunto, strutturali, nella muratura, nei percorsi, che riducono la contaminazione. Poi serve l’educazione sanitaria, e un uso oculato dei farmaci ad azione antibiotica, che non sia governato con superficialità, e ciò richiede una profondità di dottrina della quale oggi non tutti dispongono. Per questa ragione l’infettivologo è diventato ormai, a pieno titolo, un consulente fisso dei reparti di oncologia e di ematologia, proprio perché occorre, per esempio, distinguere fra la colonizzazione e l’infezione, e interpretare un dato che arriva dal laboratorio in funzione di una clinica che può presentare anche aspetti particolari. Quindi diciamo che cultura, risorse e strutture sono l’armamentario migliore, oltre a qualcosa che ha latitato molto negli anni, cioè una ricerca che comporti lo sviluppo di farmaci nuovi.

  1. Vorrei tornare su un aspetto, dal quale siamo partiti nella nostra riflessione. I numeri dei decessi per infezioni da germi multiresistenti correlate all’assistenza in strutture sanitarie collocano l’Italia al primo posto accanto alla Grecia. Un triste primato. Oggi disponiamo di un serie di report e conosciamo molti degli elementi e dei fattori predisponenti, siamo un sistema sanitario molto performante su altri aspetti, ma non riusciamo a schiodarci da questa posizione, che significa poi, da quello che ci dice l’Ecdc, 11.000 morti l’anno. Come si fa a invertire la rotta?

 

 

Il problema va scorporato in una serie di aspetti. Certamente questa mortalità è proporzionale all’incidenza delle infezioni da germi multiresistenti, quindi non è un dato atipico se preceduto dal fatto che c’è un gradiente da nord a sud in Europa di aumento dell’incidenza di una serie di germi che sono più o meno rappresentativi, Gram positivi e Gram negativi. C’è da dire che il progresso delle esigenze a livello clinico negli ultimi vent’anni è stato profondo, e anziché far progredire parallelamente le strutture ospedaliere e anche la preparazione specialistica, su questi terreni si è disinvestito. Lo abbiamo visto con il Covid, lo vediamo in molti altri aspetti, negli ultimi vent’anni la sanità è stata massacrata nei posti letto, nei posti di lavoro, nelle risorse. Sono aumentate le scrivanie e i vari uffici qualità, strategie del personale, eccetera, per cui c’è una colpa a monte che è palese e dolosa, non c’è un progetto di revisione del sistema sanitario nazionale ospedaliero come sarebbe necessario che ci fosse. Oggi per curare una neoplasia con quella pretesa di successo che i farmaci permettono di avere, abbiamo bisogno di poter contare sull’accompagnamento di una congrua igiene sia strutturale che comportamentale nella gestione del malato.

Non possiamo spendere centinaia di migliaia di euro, per esempio, per un trapianto autologo, un trapianto di staminali, una  terapia Car-T, e poi perdere il paziente perché il laboratorio di microbiologia il venerdì dopo le quattro non lavora per carenza di personale. Oppure perché le persone non sono abbastanza preparate, perché quelle più brave se ne sono andate all’estero dove guadagnano quattro volte di più, oppure perché il farmaco arriva in ritardo in quanto la farmacia fa difficoltà per questioni di budget. Bisogna rendersi conto che ci sono una serie di aspetti riconducibili a un problema di base.

Abbiamo un diritto allo studio encomiabile, oggi una laurea in medicina è pagata dalle tasse di 18 famiglie per sei anni nella misura del 92%. Quindi facciamo un investimento, dopodiché la Svizzera o l’Inghilterra prendono i migliori senza aver speso una lira per formarli. O mettiamo uno stop a questo piano inclinato o avremo performance sempre peggiori. I dati che lei cita sono allarmanti, ma sono anche disgustosi se pensiamo allo sforzo precedente, cioè spendere dei soldi e mettere il soggetto in terapia e poi perderlo per un processo che sarebbe stato largamente correggibile sia in fase preventiva che in fase terapeutica.

  1. In parte qualche accenno lo ha già fatto, ma vorrei entrare meglio nella questione. Qual è la sua valutazione del sistema di prevenzione e controllo delle infezioni nella rete ospedaliera? Qual è lo sato dell’arte?

Un po’ a macchia di leopardo. Le cose vanno meglio laddove c’è un infettivologo che se ne occupa, un laboratorio che partecipa, si danno obiettivi che corrispondono a standard migliori rispetto a quanto atteso altrimenti, quindi riguardo alla velocità di refertazione, alla interpretazione dell’antibiogramma, all’adozione di schemi di gestione logistica del paziente consentiti dalla struttura dell’ospedale. In altre realtà è totalmente assente, l’infection control non è assolutamente nemmeno preso in considerazione. Penso ai piccoli ospedali, dove pure si fa una chirurgia di un certo livello e dove effettivamente il controllo delle infezioni è carente. Spesso ci troviamo a gestire in sede centrale criticità maturate in queste sedi.

Qual è il ruolo che può giocare l’innovazione, tanto per la diagnostica che per i farmaci, la terapia, i nuovi antibiotici?

 

 

Abbiamo visto che nella diagnostica si sono fatti passi da gigante, occorre metterli in pratica e renderli fruibili dall’assistenza ospedaliera. Per quanto riguarda i farmaci ci troviamo oggettivamente a scontare una crisi di idee, nel senso che abbiamo farmaci nuovi che appartengono a categorie già esistenti, e il vantaggio che danno, pur misurabile, tende a ridursi un po’nel tempo. Mancano le categorie nuove, i nuovi meccanismi d’azione, che son quelli che di solito cambiano un po’ le carte in tavola. Ci troviamo a gestire un fenomeno di ridondanza di farmaci già esistenti, però dobbiamo renderci conto che questo è un progresso che porta una certa misura di vantaggio, ma facilmente erodibile nel tempo. C’è una crisi, si son messi tutti a fare le stesse cose nel settore della biologia molecolare, si è smesso di studiare la fisiologia batterica. Forse dovremmo ritornare a cercare nuovi meccanismi di azione. Ciò non toglie che i farmaci sviluppati nel corso degli ultimi anni ci abbiano permesso di superare numerose situazioni critiche.

Lei ha già chiarito che sul fronte dell’antimicrobico resistenza c’è da riprendere seriamente una riflessione su ricerca e sviluppo di nuove molecole, nuovi meccanismi di azione. Ma l’innovazione disponibile, invece, la utilizziamo al meglio?

Certamente in alcune aree la si utilizza al meglio, perché c’è un certo concerto di lavoro fra il microbiologo, il farmacista, l’infettivologo, il chirurgo, l’ematologo, l’oncologo. Si crea un team, si generano delle attese, per cui il ritmo di lavoro aumenta e la performance è molto buona. In altri casi si ha una gestione più approssimativa dell’innovazione, dei farmaci nuovi, talvolta con restrizioni assurde che possono valere su determinati contesti ma che certamente non devono valere su contesti di gravità, come per esempio l’area oncologica. Talvolta c’è un difetto di gestione della nuova risorsa, nel senso che a volte non viene concessa, se non con molto ritardo, altre volte ne viene allargato l’uso incongruamente ad aree dove non ce ne sarebbe bisogno. Anche su questo sarebbe necessario raggiungere un comportamento più omogeneo.

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