Vitamina D, carenze e nuove regole sulla rimborsabilità

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La vitamina D agisce come regolatore di molte funzioni cellulari e metaboliche del nostro organismo. Può essere prodotta dal corpo umano convertendo molecole precursori grazie all’esposizione ai raggi solari. E, in misura minore, viene assunta attraverso l’alimentazione. L’importante è che ciascuno di noi ne abbia a sufficienza, pena il rischio di andare incontro a malattie delle ossa come osteoporosi e osteomalacia, che le rendono fragili e più soggette a fratture.

Solo il 20% degli italiani però assume abbastanza vitamina D e ben l’80% dei connazionali ha una carenza specifica, con particolare riferimento alle donne. Una su due in età di menopausa non ne assume o produce a sufficienza ed è soggetta a riduzione della massa ossea.

L’integrazione alimentare di questa vitamina è quindi fondamentale per supplire a queste carenze, per prevenire e contrastare alcune patologie dell’osso. Tanto che il costo per il suo acquisto è anche coperto dal Servizio sanitario nazionale (Ssn). Ma non per tutti. La recente revisione della Nota 96 dell’Agenzia italiana del farmaco ha ristretto le classi di pazienti che possono acquistare questa vitamina in regime Ssn. Mentre gli altri devono acquistarla pagando di tasca propria. Out-of-pocket, come si dice in gergo.

Come spiega il presidente della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie, Claudio Cricelli, “la principale modifica della nota 96 riguarda la riduzione della soglia di deficit di vitamina D, al di sotto della quale il farmaco viene rimborsato dal Ssn. La nota identifica diverse soglie di intervento per il trattamento in relazione alla presenza di alcune condizioni patologiche, e questo significa che il medico di medicina generale dovrà prima averne accertato il dosaggio nel paziente. Ad esempio, la soglia viene ridotta da 20 a 12 ng/ml per persone con ipovitaminosi, in presenza o meno di sintomi specifici e in assenza di altre condizioni di rischio associate, mentre viene indicata la soglia di 30 ng/ml per le persone affette da osteoporosi o osteopatie candidate a terapia remineralizzante, per le quali è importante correggere una eventuale ipovitaminosi D prima di intraprendere il trattamento”.

Resta invece a carico Ssn l’integrazione della vitamina D per pazienti ricoverati, donne in gravidanza e allattamento e per coloro a cui è stata diagnosticata osteoporosi non candidata alla rimineralizzazione. Aggiunge Cricelli: “Viene inoltre introdotta una nuova categoria di rischio: quella delle ‘persone con gravi deficit motori o allettate che vivono al proprio domicilio ’ alle quali viene quindi garantita la prescrizione di vitamina D”.

Per capire la scelta di Aifa bisogna ragionare in termini di costi per il Ssn. Che non sono tanto quelli da sostenere per dare la vitamina D ai cittadini, quanto i costi per la sua titolazione. Come spiega a Fortune Italia il presidente della Società italiana di osteoporosi metabolismo minerale e malattie dello scheletro (Siommms), Iacopo Chiodini: ”Posto che Mmg e specialisti operano secondo scienza e coscienza, il timore è che si andrà verso un aumento delle prescrizioni di esami del sangue volti a misurare la quantità di vitamina D presente, così da poter decidere se la stessa sia prescrivibile a carico Ssn o meno. Ciò potrebbe portare a un aumento di costi sanitari per lo Stato. Costi maggiori rispetto a quelli che deriverebbero da una copertura delle spese di acquisto della vitamina D tout court”.

Del resto, continua il presidente Siommms “nessun governo, nemmeno quello italiano, oggi sceglie di spendere per prevenire qualcosa che potrebbe insorgere domani. Perché non paga a livello di consensi nel tempo presente. Nonostante la letteratura scientifica indichi come il deficit da vitamina D è concausa di diverse patologie, come il passaggio da prediabete a diabete”. Una malattia cronica che sappiamo comportare elevati costi diretti e indiretti sia per il paziente che per la collettività.

Detto ciò, resta da sciogliere la criticità più volte segnalata da medici di famiglia e specialisti: l’aderenza terapeutica dei pazienti rispetto all’assunzione della vitamina D. Gusto poco gradevole delle formulazioni oleose e difficoltà ad aprire i flaconcini rappresentano i principali fattori deterrenti. Specialmente per la popolazione più anziana. Che è anche quella che maggiormente beneficia di questa integrazione vitaminica.

Problematiche che potrebbero essere superate grazie all’innovazione farmaceutica in campo formulativo, che ha portato sul mercato due nuove forme di somministrazione: un film orodispertsibile e le capsule molli. Nel primo caso un piccolo ‘francobollo’ che si scioglie in bocca senza necessità di acqua o deglutizione permette un rapido rilascio e un grande praticità e sicurezza di somministrazione. Soprattutto pensando a soggetti anziani o pediatrici. Nel caso delle capsule molli alla praticità di somministrazione si affianca il gusto insapore.

Particolarmente rilevante il fatto che entrambe queste nuove formulazioni assicurano un assorbimento adeguato della vitamina D a prescindere da una somministrazione prima o dopo i pasti. Come a dire che si può assumere in qualsiasi momento della giornata, senza vincoli di orario.

Naturalmente, tengono a precisare gli esperti, qualsiasi integrazione alimentare non va intesa come un sostitutivo della dieta. Rispetto a quella della vitamina D però, precisa Chiodini “dati scientifici ci dicono che il deficit deriva prevalentemente dal fatto che oggi siamo poco esposti ai raggi solari. E questo non permette la conversione dei precursori di questa molecola in vitamina D. L’80% delle persone ne è deficitaria in inverno anche al Sud Italia o in Paesi soleggiati come la Spagna. Persino d’estate, quando ci esponiamo al sole di più il 30% della popolazione è carente di vitamina D. Questo perché, giustamente proteggiamo la pelle con creme che difendono dall’azione dannosa dei raggi Uva e Uvb. Ma con la conseguenza di limitare la produzione di vitamina D”.

Pensare a un’alimentazione ricca di alimenti contenenti questa vitamina potrebbe essere una soluzione per evitare il ricorso all’integrazione e le conseguenze di una carenza a livello osseo ma non solo? “Beh”, afferma Chiodini, “è difficile che alle nostre latitudini un’alimentazione varia ed equilibrata riesca ad apportarne sufficienti quantità. Tra gli alimenti che contengono la vitamina D, quelli più comuni nella nostra dieta mediterranea sono come tonno, tuorlo d’uovo e verdure a foglia verde. Ma dovremmo mangiarne in enormi quantità per avere sufficiente vitamina D”.

“Gli alimenti in cui essa è presente in maggior concentrazione sono quelli un po’ meno presenti sulle tavole italiane, dal merluzzo allo sgombro, passando per le aringhe. Ecco perché le popolazioni del Nord Europa soffrono meno della carenza di vitamina D, nonostante siano meno esposte al sole per ragioni di latitudine e climatiche. Tuttavia il problema esiste anche là, tanto che molti alimenti sono arricchiti proprio in vitamina D”.

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