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Cuore, uno ‘scudo’ contro l’infarto grazie alla proteina della longevità

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L’hanno ribatezzata proteina della longevità, e in effetti si tratta di una sorta di ‘scudo’ naturale per il nostro cuore. Questo perchè la proteina LAV-BPIFB4 rende le cellule cardiache umane più abili nel reagire a un infarto. Una scoperta che aiuta a spiegare come mai il cuore non si comporta sempre nello stesso modo dopo un evento simile. E che potrebbe essere molto importante anche per lo sviluppo di nuove strategie terapeutiche, considerato che ogni anno in Italia si registrano circa 150mila infarti. 

A mettere in luce il ruolo della proteina della longevità è uno studio appena pubblicato su ‘Cell Death and Disease’, coordinato dal professor Annibale Puca del Gruppo MultiMedica di Milano e dal professor Paolo Madeddu dell’Università di Bristol. Al centro della ricerca il gene BPIFB4, nella sua variante LAV (Longevity Associated Variant), già noto come “gene della longevità” perché – e non è un caso – si è visto che è particolarmente diffuso tra i centenari.

Il gene codifica per una proteina che, spiegano i ricercatori, agisce direttamente sui cardiomiociti (le cellule che fanno pulsare il cuore) rendendoli più performanti. Chiunque abbia visto un muscolo cardiaco dopo un infarto avrà notato la ridotta capacità contrattile dell’organo. Ebbene, chi possiede la poteina della longevità recupera prima e meglio la funzionalità cardiaca, spiegano gli autori dello studio.

“È stato sorprendente osservare come LAV-BPIFB4, molecola diffusa nei soggetti con vita lunga e sana, sia in grado di migliorare la performance del cardiomiocita umano”, sottolinea Monica Cattaneo, ricercatrice del Gruppo MultiMedica, primo autore della pubblicazione. “Difatti, la proteina, aggiunta alla coltura cellulare, conferisce al cardiomiocita una maggior forza di contrazione e ne aumenta la frequenza del battito. Questo vantaggio si associa a un’ulteriore azione positiva che la proteina esercita sul fibroblasto, limitando la sua produzione di fibrosi, che rende il tessuto cardiaco più rigido”. Insomma, secondo la ricercatrice questa proteina ha “un forte potenziale terapeutico, preservando l’equilibrio e lo stato di salute del cuore e opponendosi al dannoso rimodellamento cardiaco che contribuisce all’insorgenza delle patologie ischemiche”.

Lo studio

Il lavoro, finanziato dal ministero della Salute e dalla British Heart Foundation, si è articolato in tre fasi: una clinico-osservazionale, una in vivo e una in vitro. Nella prima sono stati analizzati i campioni di plasma di 492 pazienti tra i 59 e i 76 anni, che avevano subìto un infarto, ed è emersa una correlazione inversa tra i livelli di proteina BPIFB4 circolante nel sangue e la gravità della patologia coronarica. In pratica, i pazienti con la forma più severa e fatale presentavano i livelli più bassi di proteina circolante.

Nella fase in vivo i ricercatori hanno dimostrato l’effetto ‘scudo’ della proteina della longevità sul cuore di alcuni animali di laboratorio. Hanno visto che in una popolazione di topi ai quali era stato indotto l’infarto, i più resistenti erano proprio quelli a cui era stato trasferito il gene della longevità.

Nella fase in vitro infine gli scienziati si sono concentrati su due particolari tipologie di cellule umane cardiache: i cardiomiociti, responsabili della contrazione, e i fibroblasti, che hanno la funzione di produrre tessuto connettivo. “In tutti gli studi che abbiamo condotto negli ultimi anni, la proteina LAV-BPIFB4 si è dimostrata in grado di funzionare in diversi contesti patologici”, ha sintetizzato Annibale Puca, capo laboratorio presso l’Irccs MultiMedica.

Questa proteina si è rivelata in grado nei modelli animali di “prevenire l’aterosclerosi, l’invecchiamento vascolare, le complicazioni diabetiche, e di ringiovanire il sistema immunologico e cardiaco. Oggi si aggiunge un ulteriore importante tassello: la protezione dall’infarto. Tutte queste evidenze ci suggeriscono che la proteina o gene della longevità sia una sorta di strumento attraverso cui la natura ci rende più capaci di adattarci a nuove situazioni, più resistenti alle malattie”, ha detto Puca. Uno ‘scudo’ che, una volta trasformato in un farmaco, potrebbe benificiare anche chi non ha il gene ‘chiave’.

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