Lavorare da casa in salute, la risposta delle neuroscienze

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In quale modo l’ambiente in cui si vive può influenzare la salute psicofisica? La risposta arriva dalle neuroscienze, termine coniato nel 1962 dal neurofisiologo statunitense Francis Otto Schmitt: in oltre sessant’anni di ricerche, lo studio delle relazioni fra il sistema nervoso centrale e i comportamenti umani ha spalancato nuovi orizzonti nel campo delle biotecnologie e dei sistemi di interfaccia cervello-computer. E aiuta anche a sviluppare strategie per gestire i disagi legati all’abitazione e, oggi, al lavoro da casa.

“Lo smart working garantisce flessibilità e comodità, ma porta con sé anche nuove criticità, tra cui lo stress abitativo”, dice Serena Campa, neuroradiologa e membro del Comitato Scientifico Sima (Società Italiana di Medicina Ambientale). “Confondere le sfere privata e professionale genera senso di disordine e situazioni di sovraccarico cognitivo che possono attivare l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, con un aumento dei livelli di cortisolo, il cosiddetto ‘ormone dello stress’. Il rischio è che si manifestino cali di concentrazione, ansia, depressione, irritabilità e tendenza all’isolamento, ma anche cefalea, contratture, disturbi digestivi e insonnia”.

Inoltre, l’assenza di connessione interpersonale fisica diretta “non permette l’attivazione dei neuroni specchio, fondamentali per supportare l’intelligenza sociale. Ecco allora che può comparire la ‘Zoom fatigue’, dovuta allo sforzo per comprendere gli interlocutori in mancanza di evidenti componenti non-verbali, insieme all’attivazione del self-attention network: vedere la propria faccia durante le videoconferenze è distraente e toglie risorse cognitive e attentive alla conversazione”.

Il cervello si adatta facilmente alla routine, a maggior ragione se – come nel caso dello smart working – dà un senso di sicurezza e prevedibilità: “Con la ripetizione, il cervello si abitua ai comportamenti”, conferma Nicole Mamone, psicologa cognitiva. “Questo significa che, col tempo, è necessario aumentarne la frequenza o l’intensità, per cui – per esempio – a forza di lavorare da casa diventa difficile tornare in ufficio in presenza. Si è anche visto che esistono diversi tipi di neuroni presenti nel circuito entorinale-ippocampale che contribuiscono a organizzare i nostri ricordi autobiografici legati a un luogo specifico e, di conseguenza, a costruire un senso di identità personale. Quando una persona si trova contemporaneamente nella propria stanza ma anche nello spazio virtuale della videoconferenza non crea ricordi autobiografici, perché lo spazio in cui non può muoversi non è effettivamente riconosciuto dal cervello come tale. Si spiega così perché lavorare in casa, luogo in cui si rivestono anche altri ruoli, può portare a una riduzione della propria percezione di professionalità fino al burnout”.

Per ridurre lo stress abitativo è dunque indispensabile “tenere ben distinta la zona di lavoro e intervenire sugli ambienti domestici in chiave biofilica, quindi con specifici accorgimenti relativi a luce, ricambio d’aria ma soprattutto presenza di materiali, forme e colori naturali”, consiglia Rita Trombin, psicologa ambientale ed esperta di Biophilic Design.

Nella genesi dello stress abitativo riveste un ruolo di primo piano la scarsa illuminazione naturale: “La luce è cruciale per il funzionamento del cervello umano e per l’ottimizzazione delle risorse cognitive”, conferma la psicologa ambientale. “In linea generale, si lavora meglio durante le ore diurne e i benefici maggiori sono ottenuti con presenza di luce naturale variabile nel corso della giornata. Un luogo di lavoro mal illuminato risulta invece correlato a sintomi depressivi e bassa qualità del sonno, dovuti a un’alta produzione di cortisolo e una sintesi ridotta di melatonina nelle ore notturne”.

E data l’influenza della luminosità sul corretto funzionamento del sistema circadiano e della vista, “anche nei contesti di lavoro da remoto è importante cercare soluzioni efficaci per sopperire alla prolungata esposizione alla luce blu dei monitor. Oltre all’utilizzo di occhiali per schermarla, per evitare l’affaticamento visivo è consigliato guardare fuori dalla finestra e allargare lo sguardo all’orizzonte per almeno 30 secondi ogni mezz’ora, così da mantenere allenati i muscoli oculari”. 
Per rendere i propri spazi professionali più confortevoli e funzionali, chi fa smart working dovrebbe prima di tutto “creare un’area dedicata, pulita, organizzata e ben aerata. È consigliabile tenere a portata di mano sulla scrivania oggetti e strumenti necessari per le attività da svolgere, così da limitare le distrazioni e diminuire il clutter visivo, che aumenta il carico cognitivo e genera stress. Inoltre, personalizzare lo spazio inserendo oggetti ad alto impatto o valore emotivo promuove le emozioni positive e aumenta la creatività”.

Per lavorare in salute particolare attenzione va poi dedicata alla postura: “Diversi studi scientifici dimostrano come postazioni non ergonomiche possano favorire una riduzione della connettività funzionale dell’amigdala e della corteccia prefrontale, con conseguente aumento della stanchezza e calo del rendimento”, conferma Trombin. “Creare ambienti in cui può essere mantenuta una buona postura durante le ore di lavoro e in cui c’è la possibilità di alzarsi e muoversi, riduce la sensazione di affaticamento, facilita la respirazione, contrasta i dolori muscolo-scheletrici e, non ultimo, aumenta le performance intellettuali”.

Anche per chi lavora da casa le pause sono cruciali per la rigenerazione delle risorse cognitive, e devono essere programmate all’interno della routine giornaliera: si possono prevedere sia brevi camminate o esercizi di stretching, sia l’applicazione di tecniche di mindfulness, “che riducono l’attività nell’amigdala – il centro del cervello legato alla risposta allo stress – generando un senso di calma profonda e favorendo la concentrazione”, chiarisce l’esperta. “Si può iniziare con una meditazione guidata prima di iniziare le proprie attività e si prosegue con pause di respirazione consapevole alternate a esercizi di grounding da seduti, cercando di percepire i piedi ben appoggiati sul pavimento con la schiena e la testa erette, e si termina alla sera con la compilazione di un ‘diario di gratitudine’, ringraziando per la giornata appena trascorsa”.

Non bisogna dimenticare che forme, colori e materiali presenti nell’ambiente lavorativo hanno un forte impatto sul corretto funzionamento psicobiologico umano: “Il cervello risponde positivamente a specifiche forme e negativamente ad altre, innescando situazioni di stress e affaticamento psicofisico”, conferma Rita Trombin. “Linee e angoli retti, per esempio, sono fonte del cosiddetto stress architettonico, e possono favorire e far cronicizzare nel tempo uno stato di esaurimento. È stato anche dimostrato che il sovraccarico allostatico può generare neuroinfiammazione, ansia e depressione, ma addirittura diabete, patologie cardiache, schizofrenia, Alzheimer e Parkinson”. Al contrario, “la presenza di forme cosiddette biomorfiche, simbolicamente riconducibili a sagome, strutture, sequenze e texture presenti in natura, apporta numerosi benefici a livello psicofisico, accelerando il recupero dallo stress e potenziando i processi di apprendimento”.

Qualora infine il tipo di attività da svolgere e la stagione lo permettessero, “sarebbe utile cambiare di tanto in tanto postazione, trasferendo la scrivania in terrazza o in giardino o frequentando con il proprio portatile spazi di co-working, bar o location all’aperto. Stare in natura, a maggior ragione se si svolge un minimo di attività fisica nelle pause di lavoro, attiva il sistema nervoso parasimpatico e stimola la produzione di endorfine, migliorando l’umore e la resistenza allo stress”, conclude la psicologa.

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