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Alzheimer, Camillo Marra (SINdem): “Oltre mille farmaci al vaglio degli studi clinici”

Gilead

Tra i tanti unmet need della medicina, prioritario è quello relativo ai trattamenti per la malattia di Alzheimer. In Italia al momento si stimano almeno 2 milioni di soggetti con demenza, almeno metà dei quali affetti da Alzheimer. Per questa malattia, che cancella la memoria di sé e del proprio vissuto e finisce con l’annegare nell’oblio anche i rapporti con le persone più care, servono nuovi farmaci, una diagnostica precoce e affidabile, infrastrutture organizzative dedicate e un budget importante. Il versante della ricerca è improntato ad un cauto ottimismo, anche per lo sforzo planetario messo in atto da tante aziende farmaceutiche.

“I meccanismi patogenetici della malattia – ricorda il professor Camillo Marra, presidente della SINdem (Associazione autonoma per le demenze, aderente alla Società Italiana di Neurologia) e responsabile della Clinica della Memoria presso Fondazione Policlinico Gemelli Irccs – sono ben conosciuti e vanno dal deposito dell’amiloide a tutta una serie di meccanismi patogenetici a valle, diventati a loro volta target terapeutici. Molti lavori sono focalizzati su farmaci contro l’amiloide e altre molecole coinvolte nella patogenesi dell’Alzheimer, come la proteina tau; allo studio anche molecole contro i processi infiammatori, l’ossido-riduzione e l’apoptosi”. La filiera dei nuovi farmaci al vaglio degli studi clinici è enorme; in questo momento ce ne sono oltre 1.100. Quelli più vicini all’autorizzazione sono proprio i farmaci contro l’amiloide.

Disease modifying biologics

Messi da parte i ‘vaccini’, i vecchi anticorpi monoclonali, gli inibitori delle beta e delle gamma-secretasi, poco efficaci e troppo tossici, oggi è il momento degli anticorpi monoclonali di seconda generazione (in particolare Aducanumab, Lecanemab e Donanemab), che ‘ripuliscono’ il cervello dai residui, dalle placche e dalle fibrille di amiloide, tossici per i neuroni e alla base della malattia. Aducanumab, oltre a liberare il cervello dal giogo soffocante dell’amiloide, migliora un po’ anche le funzioni cognitive; Lecanemab e Donanemab sembrano essere più efficaci nello stabilizzare la progressione di malattia. “Aducanumab – ricorda il professor Marra – ha avuto un percorso regolatorio più travagliato; la Fda (Food and Drug Administration americana, ndr) lo ha approvato nel 2021 con procedura accelerata, basata non sull’endpoint primario (miglioramento della progressione clinica di malattia), ma su un endpoint surrogato, cioè la dimostrazione della scomparsa dell’amiloide dal cervello, con la Pet cerebrale”. Negli Usa questo farmaco è dunque già utilizzato in clinica, ma resta un sorvegliato speciale degli studi di fase 4, che valuteranno nel lungo periodo la sua efficacia nel ridurre la progressione del danno cognitivo. L’European Medicines Agency (Ema) invece non lo ha reso disponibile in Europa, mentre è in corso l’iter registrativo per gli altri due.

“Lecanemab – commenta il professor Marra – agisce sulle placche amiloidi e sembra molto promettente, non solo perché ripulisce il cervello dall’amiloide, ma perché stabilizza la progressione di malattia nel 27% dei pazienti e questo è molto interessante. L’iter registrativo Ema potrebbe concludersi il prossimo marzo. Sul Donanemab i dati sono ancora più soddisfacenti, anche se su un numero minore di soggetti. Il farmaco, già approvato dalla Fda, potrebbe ricevere l’ok dell’European Medicines Agency il prossimo giugno”.

Insomma, nella prima metà 2024 dovrebbero arrivare in Europa questi due farmaci anti-Alzheimer, peraltro già disponibili negli Usa. “Per la prima volta in trent’anni – commenta Marra – avremo a disposizione farmaci in grado di modificare il panorama della malattia. Ritengo tuttavia che avranno un impatto su un numero molto limitato di soggetti. I nuovi anticorpi monoclonali verranno utilizzati solo negli stadi più precoci di malattia e non in fase avanzata. Si è visto inoltre che i portatori dei geni di predisposizione alla malattia (come l’allele ɛ4 dell’APOE) rispondono meno a questi farmaci e sono più predisposti ai loro effetti collaterali, cioè a quelle temibili manifestazioni di edema o di emorragia cerebrale, che vanno sotto il nome di ‘ARIA’. Insomma, i candidati a questi trattamenti non saranno centinaia di migliaia di italiani, ma al più 30-50.000 pazienti”.

Questione di costi (non solo economici)

L’impatto sulla spesa sanitaria sarà comunque importante non solo per il costo del farmaco – quello della fiala mensile potrebbe aggirarsi sui 2.500 euro e tra l’altro non è ancora chiaro quale dovrà essere la durata della terapia, se a vita o solo per un determinato periodo – ma anche per l’organizzazione delle infrastrutture per la somministrazione del farmaco. “I Centri per Disturbi Cognitivi e Demenze (CDCD, ‘centri demenze’) – afferma il professor Marra – non sono tutti pronti per la somministrazione di queste terapie, che richiede postazioni di Day Hospital, letti per infusione, servizi di assistenza H24 perché un paziente che fa queste terapie deve avere come punto di riferimento l’ospedale, per la gestione di eventuali complicanze. Vanno previsti corsi di formazione ai neuro-radiologi per individuare tempestivamente gli effetti collaterali (i segni dell’ARIA). Senza contare il numero delle risonanze. La somministrazione di questi farmaci va monitorata con attenzione, con una risonanza magnetica (Rmn) ogni tre mesi (o una al mese in caso di comparsa di ARIA), quindi vanno previste oltre 100mila risonanze in più l’anno, rispetto all’attuale”.

Insomma c’è tutto un sistema da resettare, per farsi trovare pronti all’arrivo di queste nuove terapie e renderle effettivamente disponibili ai pazienti. E nei prossimi anni, anche la diagnostica della malattia sarà rivoluzionata. “Al momento – spiega il professor Marra – l’Alzheimer viene diagnosticato a livello clinico, attraverso indagini strumentali (Rmn e Pet) e valutazioni cognitive (test neuro-psicologici). Ma con l’arrivo dei farmaci contro l’amiloide, la diagnosi non potrà più essere solo clinica, ma ‘biologica’. Dovremo cioè ricercare la presenza di amiloide, il biomarcatore di malattia. E per questo servono esami costosi come la PET con traccianti per l’amiloide o la puntura lombare per la ricerca di biomarcatori nel liquor. Sono tuttavia al vaglio anche esami per la ricerca di beta-amiloide (Amyloid Beta-40 e Beta-42) nel plasma e di fosfo-tau nel siero; questi potrebbero in futuro essere utilizzati come screening, per avviare poi solo i soggetti positivi a questi test, alle indagini di diagnosi precoce e biologica più costose ed invasive”.

Disease modifying small molecules

Oltre agli anticorpi monoclonali, che rappresentano un quarto degli agenti al vaglio degli studi di fase 3, c’è tutta un’altra filiera di farmaci sperimentali (sono un terzo di quelli approdati alla fase 3) che colpiscono altri meccanismi patogenetici di malattia, come lo stress ossidativo, l’infiammazione, il metabolismo energetico.

“I più promettenti – spiega Marra – sono gli agenti che modulano l’infiammazione attraverso meccanismi metabolici e i farmaci per il metabolismo energetico. Interessanti anche alcuni antidiabetici, come gli analoghi recettoriali del GLP-1 (es. liraglutide, semaglutide) che sembrano efficaci nel bloccare i processi di neuro-degenerazione, a valle dell’accumulo di amiloide. Ci sono poi gli agenti contro alcuni recettori infiammatori, come i TREM2 o quelli del TNF-alfa e molecole efficaci nel ridurre la morte neuronale. Di certo, il futuro dell’Alzheimer insomma non sarà la mono-terapia, ma il trattamento della malattia a vari livelli (beta amiloide, tau, infiammazione, metabolismo energetico)”.

 

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