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Alzheimer, scoperta una nuova forma genetica

Alzheimer Juan Fortea/Credits Karla Islas Pieck
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Scoperta una nuova forma genetica di Alzheimer, associata a caratteristiche del Dna comuni al 2-3% della popolazione. I ricercatori dell’Institut de Recerca Sant Pau (Spagna), guidati dal neurologo Juan Fortea (nella foto/credits Karla Islas Pieck – Institut de Recerca Sant Pau), hanno scoperto che oltre il 95% dei soggetti over 65 anni con due copie del gene APOE4 (APOE4 omozigoti) presentano caratteristiche biologiche della patologia di Alzheimer nel cervello o biomarcatori di questa malattia nel liquido cerebrospinale e nella Pet.

Il gene nel mirino

L’allele E4 del gene APOE (APOE4) è da tempo associato ad un rischio aumentato di Alzheimer. Il nuovo studio, pubblicato su ‘Nature Medicine’, mette pienamente in luce l’effetto di essere portatori di due copie del gene e conclude che gli individui omozigoti per APOE4 sviluppano la malattia prima rispetto a quelli con altre varianti di questo stesso gene. Insomma, secondo i ricercatori avere due copie del gene APOE4 potrebbe rappresentare una nuova forma genetica della malattia che ruba i ricordi. Un rischio che, una volta individuato, potrebbe essere contrastato con strategie ad hoc.

“Questi dati rappresentano una nuova concezione della malattia o di cosa significhi essere omozigote per il gene APOE4 – precisa Juan Fortea – Questo gene è noto da oltre 30 anni per essere associato a un rischio più elevato di sviluppare la malattia di Alzheimer. Ma ora lo sappiamo che praticamente tutti gli individui con questo gene duplicato sviluppano la biologia tipica dell’Alzheimer. E questo è importante, perché rappresentano tra il 2 e il 3% della popolazione”.

La ricerca

Le mutazioni in tre geni – APP, PSEN1 e PSEN2 –  sono coinvolte nello sviluppo della malattia di Alzheimer a esordio precoce, una forma genetica che può comparire a partire dai 40 anni, mentre varianti di altri geni erano state collegate ad un aumento del rischio di sviluppare forme sporadiche o ad esordio tardivo.

In questo lavoro, i ricercatori hanno valutato un gruppo di soggetti con due copie del gene APOE4 per determinare il loro rischio di sviluppare l’Alzheimer. Il team ha utilizzato dati di 3.297 donatori di cervello, inclusi 273 omozigoti per APOE4 del National Alzheimer’s Coordinating Center (Stati Uniti) e dati clinici e di biomarcatori relativi a oltre 10.000 individui (fra cui 519 omozigoti per APOE4) provenienti da cinque grandi coorti multicentriche (da Europa e Stati Uniti).

I risultati suggeriscono che praticamente tutti gli omozigoti per APOE4 mostravano segni della patologia di Alzheimer e avevano livelli più elevati di biomarcatori associati alla malattia a 55 anni rispetto agli individui con il gene APOE3. Inoltre a 65 anni, oltre il 95% degli omozigoti APOE4 mostrava livelli anormali di amiloide nel liquido cerebrospinale – una caratteristica chiave nella malattia di Alzheimer – e il 75% aveva scansioni cerebrali positive.

Sulla base di questi risultati, gli autori suggeriscono che la variante genetica del gene APOE4 non è solo un fattore di rischio per la malattia di Alzheimer, come si pensava in precedenza, ma potrebbe appunto rappresentare una forma genetica distinta di Alzheimer.

Passi avanti per una prevenzione mirata

Secondo Fortea questi risultati potrebbero essere utili per lo sviluppo di strategie di prevenzione personalizzate, oltre che di studi clinici e approcci terapeutici mirati per questa popolazione specifica. Come sottolinea Alberto Lleó, ricercatore del Gruppo di Neurobiologia della Demenza dell’Istituto di Ricerca di Sant Pau e direttore del Servizio di Neurologia dello stesso ospedale, “i dati mostrano chiaramente che avere due copie del gene APOE4 non solo aumenta il rischio, ma anticipa anche l’insorgenza dell’Alzheimer, rafforzando la necessità di strategie preventive specifiche”.

Anche secondo Víctor Montal, che ha partecipato allo studio prima di concentrarsi sulla struttura molecolare del gene APOE presso il Centro di Supercalcolo di Barcellona, ​ “i risultati sottolineano l’importanza del monitoraggio degli omozigoti APOE4 fin dalla tenera età, per interventi preventivi” mirati, in grado di mettere un freno alla manifestazione della malattia che ruba i ricordi. E che, solo in Italia, secondo le stime colpisce poco più di 600mila persone.

L’analisi del neuroscienziato

“Questo studio, almeno per quello che è dato di leggere al momento, si inserisce nell’alveo di un dibattito molto acceso tra coloro che sostengono la diagnosi BIOLOGICA di demenza di Alzheimer e coloro (tra cui il sottoscritto) che sostengono una diagnosi CLINICA. Cosa significa? Significa che per i primi è sufficiente avere una serie di parametri biologici (incluso l’allele epsilon 4 di ci parla l’articolo in oggetto) alterati per essere diagnosticati Alzheimer anche in assenza di sintomi clinicamente evidenti, mentre per i secondi in assenza di sintomi cognitivi (smemoratezza, disorientamento, disturbi del linguaggio etc.) misurabili con i test neuropsicologici e che impattano in modo significativo sulle autonomie del vivere quotidiano non si può parlare di malattia di Alzheimer anche in presenza di marcatori biologici che ne aumentano il rischio”, afferma a Fortune Italia Paolo Maria Rossini, direttore Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’Irccs San Raffaele-Roma.

Rossini, inserito tra gli “Highly Ranked Scholar”, ossia tra i professionisti di più alto livello in base alle prestazioni in vari campi, discipline e specialità (parliamo dello 0,05% di tutti gli studiosi del mondo) della classifica ScholarGPS (che raccoglie oltre 30 milioni di studiosi e 55.000 istituzioni del pianeta), è un esperto di questa malattia.

Paolo Maria Rossini, Irccs San Raffaele di Roma

La questione dei sintomi

“Già ora – riflette allora il neuroscienziato – sappiamo che una percentuale molto consistente (per l’ApoE Epsilon 4 arriva sino al 30% dei soggetti) di persone in cui sono presenti uno o più biomarcatori, se seguita nel tempo non si ammalerà mai di Alzheimer con sintomi clinici evidenti. Se da una parte può essere utile conoscere il prima possibile la presenza di eventuali fattori di rischio per provare a correggerli (quando si può, nel caso della genetica è ovviamente impossibile), dall’altra appiccicare l’etichetta di ‘demente’ ad una persona che ha solo dei biomarcatori di rischio senza avere alcun sintomo e che è ancora pienamente autonoma nella vita sociale, affettiva, professionale ed altro significa solo distruggere la vita di questa persona e della sua famiglia. Anche perché trattandosi di una malattia di lunga durata e di progressivo peggioramento, l’errore di previsione potrà essere documentato come tale solo dopo un follow-up di diversi anni durante i quali questo errore avrà già distrutto l’esistenza, il lavoro, i rapporti sociali ed affettivi del presunto malato”.

“Ovviamente, a volere essere un poco maliziosi, da parte di chi produce o produrrà kit di laboratorio che misurano questi biomarcatori e farmaci contro la demenza, c’è un estremo interesse a una diagnosi biologica, perchè più si allarga il numero di coloro che potrebbero averne la prescrizione, meglio. Ma questo – sorride – è solo un pensiero un po’ cinico di un anziano neurologo. Mi pare che di veramente nuovo, in termini anche solo applicativi, questo articolo non mostri nulla di particolare, mentre porta decisamente acqua al mulino di coloro che si ‘accontentano’ di una diagnosi biologica, senza aspettare i sintomi clinici, con tutte le implicazioni non solo organizzative e sociali, ma anche etico-morali di cui sopra”.

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