Cure palliative, perché la semantica non ci aiuta

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Il termine cure palliative non ci aiuta semanticamente a capire il significato del prendersi cura della persona malata. La parola palliativo, fuori dal contesto del pallium, del mantello di San Martino, non ci fa pensare a una vera e propria terapia.

Ormai il termine cure palliative è entrato nel contesto comunicativo e accademico, a tal punto che il Miur, di concerto con il ministero della Salute, ha sancito l’istituzione della scuola di specializzazione in Medicina e Cure Palliative (G.U. n. 310 del 20-12-2021).

Il dolore (pain) acuto, cronico, oncologico, pediatrico, geriatrico, neurogeno, è un sintomo, la sofferenza (suffering) è un uno stato psicologico influenzato dalle emozioni e dal vissuto personale, pertanto prendersi cura del malato significa avere cura degli aspetti fisici, psichici e sociali della persona malata, significa prendersi cura dell’eubiosia della persona.

Sappiamo che il pallium, il mantello, è l’immagine della cura e della generosità verso chi soffre. Il mantello di San Martino che avvolge le persone ha un forte valore simbolico, che rimanda sia all’empatia con il sofferente, sia alla dimensione spirituale della morte, ma la parola palliativo, senza il contesto del pallium, non ci fa pensare ad una vera e propria terapia.

La scienza medica non deve occuparsi tanto di guarire le malattie quanto di curare le persone malate. Prendersi cura della persona malata significa non focalizzarsi solo al dolore, ma occuparsi e preoccuparsi della sofferenza, poiché non può esistere dolore disgiunto dalla sofferenza.

Nella persona l’emozione è inseparabile dalla sensazione, essa varia notevolmente da individuo a individuo, dando al dolore quella connotazione di esperienza soggettiva non trasferibile né comunicabile ad altri. Infatti per l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) il dolore è soggettivo: “Il dolore è ciò che ciascuno di noi dice di essere dolore”.

Il dolore è il più comune sintomo di malattia, la sofferenza è essa stessa malattia della persona, perchè coinvolge il soma, la psiche e conseguentemente l’anima. I fattori emotivi e cognitivi possono anche “produrre” o aumentare il dolore: in un certo senso, la paura di soffrire è già sofferenza. Il dolore come sofferenza coinvolge tutta la persona nella sua unità di corpo e di psiche.

L’antropologia e gli studi socio-psicologici dall’antichità a oggi mirano ad individuare i modi con cui l’uomo esprime e vive la propria sofferenza, poiché non può esistere dolore disgiunto dalla sofferenza. Il dolore può essere acuto, cronico, oncologico, pediatrico, geriatrico, neurogeno, ecc.. La sua intensità e la sua qualità non sono sempre le stesse, a noi, operatori sanitari, spetta il compito di approntare, in modo empatico e terapeutico, un trattamento diversificato a seconda del tipo di paziente e del tipo di dolore. Il dolore di natura fisica o la malattia certamente merita tutte le attenzioni e le cure possibili, ma le sofferenze interiori, morali e psico-affettive, che si accompagnano al dolore e che sembrano meno evidenti, non sono assolutamente da meno delle prime.

Il dolore, pertanto, non può e non deve essere spiegato soltanto in termini anatomici e di circuiti sensoriali; poichè l’esperienza del dolore non è dovuta solo ad una semplice attivazione del sistema nervoso, ma è legata anche ad uno stato psicologico influenzato dalle emozioni e dal vissuto personale.

In una società volta al servizio della persona, le menomazioni derivanti dal dolore e dalla malattia non cancellano la dignità e il valore di chi li patisce, anzi, proprio in tali circostanze, possono emergere la profondità e l’unicità del nostro essere umani. Per questi motivi l’assistenza ai pazienti in fase avanzata di malattia ad esito incerto o segnatamente infausto rientra nel contesto di eubiosia, ovvero del prendersi cura della persona nel rispetto della dignità del malato terminale.

*Felice Eugenio Agrò professore ordinario e direttore scuola di specializzazione Università Campus Bio-Medico di Roma

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