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Fragilità ossea: come viene trattata?

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Per il nostro speciale sulla fragilità ossea, parla Maurizio Rossini, professore di Reumatologia presso l’Università degli Studi di Verona: disegna il quadro del panorama farmacologico italiano per il trattamento della fragilità ossea. Articolo di Attilia Burke apparso sul numero di Fortune Italia di giugno 2020.

L’osso è uno dei tessuti più rinnovati nel nostro organismo. Si rinnova continuamente perché è importante che si mantenga elastico. Questo rinnovamento avviene grazie a due categorie di cellule: gli osteoblasti, che formano l’osso, e gli osteoclasti, che rimuovono l’osso vecchio. L’osteoporosi deriva da un eccessiva attività degli osteoclasti e/o dalla riduzione dell’attività degli osteoblasti. L’attività di queste cellule è regolata da altre cellule, gli osteociti, che sono le ‘centraline di comando’. I farmaci per la fragilità ossea ad oggi disponibili agiscono principalmente su queste componenti cellulari.

 

La prima linea di intervento farmacologico

Il razionale dell’intervento farmacologico prevede innanzitutto la correzione di eventuali deficit. Ad esempio, per un paziente che assume poco calcio con l’alimentazione od è carente di vitamina D, è necessario in primis modificare la dieta o ricorrere a supplementi. Se il problema invece è legato alla menopausa precoce – e la menopausa è un fattore di rischio importante perché l’osteoporosi è favorita dalla carenza di estrogeni – bisogna cercare di correggere il deficit con un trattamento ormonale sostitutivo. Qualora questi interventi non fossero sufficienti o non tollerati o controindicati, si passa ai farmaci che agiscono sulle cellule dell’osso.

Farmaci che inibiscono l’attività degli osteoclasti

Riducono l’attività delle cellule che rimuovono il tessuto osseo. I più comuni sono i difosfonati (alendronato, risedronato, ibandronato o zoledronato), che attualmente costituiscono anche i trattamenti di prima linea più diffusi. Con questi farmaci è possibile ridurre tra il 30 e il 50% delle fratture da fragilità. In alternativa c’è il denosumab, una terapia biologica più potente dei difosfonati, rappresentata da un anticorpo che blocca la proteina che stimola l’attività degli osteoclasti.

Farmaci che stimolano l’attività degli osteoblasti

Attualmente ne esiste solo uno: si tratta della ‘teriparatide’, un frammento attivo del paratormone, un ormone fisiologicamente presente nell’uomo. Questo ormone somministrato sottocute una volta al giorno stimola gli osteoblasti e quindi stimola la neoformazione ossea. È una cosidetta ‘terapia anabolizzante’ che, tuttavia, presenta dei limiti temporali. Infatti, non si può portare avanti per più di due anni per due motivi: in primis perché con il tempo finisce per stimolare anche gli osteoclasti e quindi il bilancio diventa zero, e non si guadagna più osso. Inoltre, è stato segnalato nei ratti, dopo due anni di trattamento, un rischio di sviluppo di neoplasie.

Farmaci che stimolano l’attività degli osteoblasti e inibiscono l’attività degli osteoclasti

Da poco esiste una molecola, l’unica per ora, che presenta questa duplice azione: romosozumab. Potremmo definirla una terapia “osteo-regolatrice” perché va a correggere lo sbilanciamento tra l’attività degli osteoblasti e quella degli osteoclasti, tipico dell’osteoporosi. Gli scienziati infatti hanno individuato la proteina prodotta dall’organismo che inibisce l’attività degli osteoblasti, cioè le cellule che formano osso, e che nello stesso tempo stimola gli osteoclasti, promuovendo la rimozione del tessuto osseo. Questa proteina si chiama sclerostina, e viene prodotta dagli osteociti, le cellule centraline di comando che regolano l’attività di osteoclasti e osteoblasti. È stato dunque sviluppato un anticorpo che va a bloccare l’attività della sclerostina, ovvero il romosozumab. I risultati del suo impiego sono entusiasmanti: in un anno riesce ad incrementare la massa ossea quanto gli altri attuali farmaci riescono a fare solo dopo almeno 5 anni: per questo lo chiamano ‘bone builder’. Gli studi hanno dimostrato che con un solo anno di trattamento è possibile ridurre il rischio di fratture vertebrali da fragilità del 70%, il doppio di quello che riesce a fare ad esempio l’alendronato, attualmente considerato il trattamento di riferimento principale. La rapidità d’effetto rende questa terapia molto attraente, anche in prima linea, in particolari per i pazienti a elevato rischio di frattura, con forme più gravi di osteoporosi o con un rischio imminente di rifratturarsi, come i pazienti incorsi in una recente frattura da fragilità. Attualmente romosozumab è stato approvato dall’Ema e entro il 2021 dovrebbe essere disponibile anche in Italia tra le opzioni terapeutiche.

Una terapia sequenziale

Anche per romosozumab, come per teriparatide, vi sono dei limiti temporali per l’impiego, oltre i quali non vi sono sostanziali benefici. Per ottimizzare i benefici di queste molecole, una possibilità è la terapia sequenziale: una strategia terapeutica che prevede ad esempio 1 anno con romosozumab, seguito da un trattamento con un inibitore delle attività degli osteoclasti, come i difosfonati o denosumab. In questo modo è possibile mantenere o incrementare il guadagno ottenuto: con l’approccio sequenziale ad esempio romosozumab-denosumab in due anni sarà possibile ottenere risultati che attualmente richiederebbero sette anni.

 

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