Covid, ecco quanto durano gli anticorpi dei guariti

anticorpi Levezzo
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Quanti sono, ma soprattutto quanto durano gli anticorpi di chi è stato infettato dal Sars-CoV-2? C’è differenza tra sintomatici e asintomatici? Con quale probabilità ci si infetta all’interno di uno stesso nucleo familiare? Quanto è servito il contact tracing nel contenimento dell’epidemia?

A rispondere finalmente a tutte queste domande chiave per la gestione della pandemia di Covid-19 è lo studio Sars-CoV-2 antibody dynamics and transmission from community-wide serological testing in the Italian municipality of Vo’, pubblicato su ‘Nature Communications’ e condotto da un team di ricercatori dell’Università di Padova e dell’Imperial College di Londra che, grazie allo screening sierologico della popolazione di Vo’ (Padova), ha consentito di stimare le dinamiche anticorpali nelle infezioni da Sars-CoV-2, la probabilità di trasmissione del virus all’interno dei nuclei familiari e l’impatto del contact tracing nel contenimento dell’epidemia. A firmare lo studio anche Mario Plebani, del Dipartimento di Medicina di laboratorio, Azienda-Ospedale, Università di Padova.

Nei mesi di febbraio e marzo 2020 la popolazione di Vo’ è stata testata in massa attraverso due campagne di screening basate su tampone molecolare per la ricerca del nuovo coronavirus Sars-CoV-2. I risultati hanno dimostrato che una quota significativa degli individui infetti era completamente asintomatica (42,5%). Ma anche che, nonostante questo, l’epidemia era stata controllata e soppressa grazie all’isolamento degli individui risultati positivi al tampone molecolare (studio Suppression of a SARS-CoV-2 outbreak in the Italian municipality of Vo’ pubblicato su ‘Nature’).

A maggio 2020, dopo un lockdown nazionale molto severo, i ricercatori hanno nuovamente testato l’86% della popolazione di Vo’ (2602 soggetti) con tre diversi tipi di test immunologici in grado di rilevare non solo la presenza di anticorpi contro gli antigeni virali spike (S) e nucleocapside (N), ma anche con un test che ha permesso di individuare gli anticorpi neutralizzanti, ovvero quegli anticorpi che bloccano il virus Sars-CoV-2 non rendendolo più in grado di infettare le cellule.

I soggetti positivi al test molecolare di febbraio/marzo, o ad almeno uno dei diversi saggi immunologici di maggio, sono stati testati di nuovo nel mese di novembre 2020.

“Grazie ai risultati ottenuti dai diversi test abbiamo stimato che a maggio il 3,5% della popolazione era stata esposta al virus – spiega Enrico Lavezzo, co-autore dello studio, dipartimento di Medicina Molecolare dell’Università di Padova – A novembre tutti i test hanno dimostrato una riduzione dei titoli anticorpali, sebbene il 98,8% dei soggetti mantenesse ancora una quantità rilevabile di anticorpi. Nel 18,6% dei soggetti si è registrato invece un aumento marcato del titolo anticorpale o neutralizzante tra maggio e novembre, segno questo di una probabile o documentata riesposizione al virus”.

Ma questo cosa vuol dire? “In sostanza il nostro studio ha evidenziato come gli anticorpi abbiano una durata di almeno 9 mesi e che non c’è differenza tra chi ha contratto il virus in modo sintomatico o asintomatico, né per quantità né per durata”.

“Un grazie speciale va alla popolazione di Vo’, per la partecipazione in massa agli studi sierologici che ci hanno dato l’opportunità di capire come i livelli anticorpali variano nel tempo e di quantificare, per la prima volta, quanta trasmissione avviene in famiglia e l’impatto che ha avuto il tracciamento dei contatti sull’epidemia – interviene Ilaria Dorigatti, Mrc Centre of Global Infctious Analysis dell’Imperial College di Londra – Questo studio dimostra che i livelli anticorpali variano, anche marcatamente, in base all’antigene e al test usato”.

“Questo significa che ci vuole cautela nel comparare stime di sieroprevalenza ottenute in diverse parti del mondo, con test diversi, e in tempi diversi. Inoltre, dimostra chiaramente come i modelli matematici siano uno strumento utile per ricostruire una visione coerente dell’evoluzione di un’epidemia e quantificare l’impatto dei vari interventi implementati”.

“Le nostre stime – aggiunge Dorigatti – suggeriscono che ci sia una probabilità di circa 1 su 4 che un infetto da Sars-CoV-2 passi l’infezione ad un familiare, e stimiamo che a Vo’ l’epidemia sia stata soppressa grazie all’isolamento dei casi infetti e ad un breve lockdown, mentre il tracciamento dei contatti ha avuto un effetto limitato sull’epidemia”.

Non solo. “E’ chiaro che l’epidemia non è finita, né in Italia né all’estero. Andando avanti, penso sia di fondamentale importanza continuare con la somministrazione delle prime e seconde dosi dei vaccini e a monitorare la trasmissione, rafforzando in maniera sostanziale la genotipizzazione del virus, che permette di identificare le varianti, e il tracciamento dei contatti, ad esempio con il contact tracing digitale”, sottolinea.

“Dallo studio emerge anche che l’attività di contact tracing per la ricerca degli individui positivi sulla base dei contatti noti e dichiarati avrebbe avuto un impatto limitato (scovando il 44% degli individui infetti) sul contenimento dell’epidemia, se non fosse stato affiancato da uno screening di massa – sottolinea Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Medicina molecolare dell’Università di Padova – Per questo motivo riteniamo che, per il controllo di future epidemie di SarsS-CoV-2, sia necessario implementare delle strategie di testing rigoroso e migliorare gli approcci di contact tracing”.

“Se infatti la metodologia del contact tracing non è stata sufficiente in una piccola comunità come quella di Vo’, che conta poco più di 3000 abitanti, è difficile pensare che lo possa essere in una città di medie e grandi dimensioni dove le reti di interazione sociale sono amplificate e meno tracciabili”, conclude Crisanti.

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