Più digitale e territorio fra i pilastri della sanità di domani

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Gli italiani hanno un’idea precisa sulla sanità che vorrebbero per il futuro. Fatta di ospedali più efficienti, un numero maggiore di personale sanitario tra medici e infermieri, e soprattutto una sanità più vicina a casa propria. In altri termini, una sanità molto più capace di instaurare un dialogo diretto con cittadini, pazienti e caregiver, per arrivare alla quale occorre instaurare un processo di profonda trasformazione a livello di valorizzazione delle professionalità sanitarie e di governance.

Un processo che deve comprendere anche un adeguato empowerment del paziente, che passa da una più marcata consapevolezza del proprio ruolo nell’utilizzare adeguatamente le risorse, tra cui l’automedicazione, all’interno di un Servizio sanitario nazionale (Ssn) che per il suo universalismo tutto il mondo ci invidia, ma che richiede qualche cambiamento.

Ma cosa è necessario fare per raggiungere questi obiettivi così ambiziosi? Se n’è discusso stamani all’evento organizzato da Fortune Italia intitolato “La sanità che vorrei – il valore dell’automedicazione responsabile”.

Innanzitutto bisogna partire dalla considerazione di ciò che i cittadini desiderano dalla sanità che sarà disegnata anche grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr).

“Ciò che non dovrà più esserci”, ha detto il responsabile dell’area Politiche sociali del Censis, Francesco Maietta, illustrando i risultati di un’indagine condotta dal suo istituto, “è la carenza di risposte assistenziali da parte del Ssn, e contemporaneamente una sanità di prossimità con interlocutori precisi a cui rivolgersi sul territorio, compresa la farmacia, che viene sempre più vista come centro servizi per la salute. Ancora, un’applicazione della digitalizzazione che permetta il dialogo attivo tra le figure sanitarie del territorio, farmacista e medico di medicina generale in primis, e di questi con i cittadini-pazienti. Senza dimenticare la necessità di educazione sanitaria e di diffondere informazioni corrette sulla salute”.

Ma anche sull’automedicazione, intesa non solo come corretto uso dei farmaci classificati in questa categoria, ma più in generale di una consapevolezza più profonda sul modo di interagire efficace ed efficiente con le strutture sanitarie e con i professionisti della salute. E questo considerando che, nell’anno della pandemia, 41 milioni di italiani hanno fatto ricorso all’automedicazione responsabile, per trattare piccoli disturbi. Spesso dietro consiglio del medico di famiglia o del farmacista, come è emerso dall’indagine Censis.

“L’automedicazione nelle sue varie forme ha caratterizzato l’anno della pandemia, perché tutti abbiamo cercato di risolvere in autonomia i piccoli disturbi che ci hanno interessato in quel periodo – dal mal di testa ai disturbi articolari – e l’abbiamo fatto in modo responsabile”, ha aggiunto il presidente di Assosalute, Salvatore Butti.

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“Questo anche in virtù della possibilità di ricorrere alla farmacia sotto casa – rimasta sempre aperta anche nei periodi più duri dell’emergenza sanitaria – per risolvere in autonomia queste piccole problematiche. Ma anche per capire, grazie alla consulenza dei farmacisti, se si trattasse di campanelli d’allarme di problematiche più serie di cui discutere con il proprio medico di famiglia”, ha aggiunto.

Insomma, un vero e proprio esempio del fare rete in modo sinergico a livello territoriale, che si auspicano anche le principali categorie di professionisti della salute. Tra cui i farmacisti che, per voce del presidente Fofi (federazione degli Ordini dei farmacisti) Andrea Mandelli, evidenziano il desiderio di riuscire a “trovare nuove simmetrie con il medico di medicina generale per dare nuovo slancio alla sanità, magari italianizzando alcune esperienze estere”, dove il farmacista si occupa anche di taluni piccoli atti sanitari, come le piccole medicazioni, che possono limitare il ricorso ai Pronto soccorso.

Concorde anche il presidente di Federfarma Marco Cossolo, secondo il quale la chiave di volta è proprio “fare rete tra farmacisti, medici di medicina generale e infermieri, trovando per ciascuno un proprio ruolo nuovo” in una sanità calata sul territorio. “Un ruolo che dovrà essere più ‘alto’”, nel senso di maggiori opportunità di azione e maggiori responsabilità.

Parzialmente diversa la posizione di Domenico Crisarà, vicesegretario nazionale Fimmg, che evidenzia come “la Medicina generale percorra da anni la via dell’integrazione e della medicina di iniziativa. Mentre ora occorre valorizzare davvero la professionalità sanitaria, per esempio attraverso una premialità sui risultati ottenuti dalla sinergia tra medico, infermiere e farmacista sulla base di una convenzione comune con il Ssn” per tutti questi professionisti.

E a patto che non ci sia un “assalto alla diligenza della Medicina generale”, aggiunge, dicendosi contrario al fatto di rendere possibile che atti sanitari minori, come una sutura, diventino appannaggio di chi potrebbe seguire solo un corso di formazione, mentre i medici sono in grado di farlo in ragione di un’esperienza maturata in anni di pratica.

Ad aggiungere pepe alla discussione ci pensa il presidente di Simg Claudio Cricelli, che evidenzia come molte azioni infrastrutturali previste dal Pnrr rischino di essere delle cattedrali nel deserto, mentre occorre “ispirarsi al modello Amazon, che sta penetrando tutti noi”. Il che, fuor di metafora, significa allontanarsi dalla sanità che abbiamo vissuto finora, fatta di cittadini che vanno al Ssn. Bisogna invece “disegnare una sanità che vada fin dentro la casa dei pazienti e dove l’eventuale movimento del cittadino verso una Asl sia dovuto a una sua necessità e non a un’imposizione delle istituzioni”.

In questo modo si potrebbero anche eliminare le iniquità d’accesso alla salute che oggi vedono cittadini e pazienti di serie A e di serie B. Per riuscirci, secondo il segretario nazionale di Cittadinanzattiva Anna Lisa Mandorino, dobbiamo “immaginare una sorta di piano di rientro dei Lea”, che verifichi l’uniformità dei Livelli essenziali di assistenza sul territorio nazionale.

Mentre per il presidente di Fenagifar Carolina Carosio la ricetta è quella di “aumentare l’inclusione del paziente, creando un sistema di capillarità territoriale” in grado di rispondere in modo efficace ai bisogni di salute.

Cossolo non ha esitato a dire che “il papà di tutte le disuguaglianze in sanità è la riforma del Titolo V, che dovrebbe essere rivisto”, perché non più attuale.

Riforma costituzionale a parte, a fronte di una nuova sanità territoriale “caratterizzata anche da uno ‘tsunami tecnologico’ grazie all’iniezione di Ict” prevista dalle attività in seno al Pnrr “potrebbe occorrere anche una nuova forma di governance?”, si è interrogato il presidente di Crea Sanità Francesco Spandonaro. Forse sì, forse no. Giacché “l’attuale funziona abbastanza bene”, ha detto, “e le disparità di accesso alla salute non dipendono solo dal Titolo V e dal federalismo, quanto dalla mancanza di una centralità autorevole. E, nell’ottica dell’utilizzo ottimale delle risorse del Pnrr, di un adeguato raccordo tra il piano nazionale e quelli regionali”.

Una connessione che, secondo il presidente della Commissione parlamentare per la Semplificazione Nicola Stumpo potrebbe “passare proprio dal semplificare il modo in cui si riesce a dare un servizio sanitario utile ai cittadini e per il miglioramento della loro qualità di vita”.

Con la pandemia è cambiato profondamente il modo degli italiani di fruire della sanità,:pensiamo solo al ritiro dei referti e alla possibilità di prenotare visite ed esami online, come ha evidenziato Chiara Sgarbossa, direttore dell’Osservatorio Innovazione digitale in sanità del Politecnico di Milano, secondo la quale indietro non si torna.

Coniugare prossimità, innovazione e sostenibilità nella sanità del futuro allora non pare solo auspicabile, ma anche possibile. Come arrivarci? “Bisogna avere coraggio di adottare flessibilità nei processi. Occorre attivare un rapporto forte con la prossimità grazie alla collaborazione dei medici di medicina generale, delle altre figure professionali e delle strutture sanitarie territoriali, che possono essere riqualificate” perché diventino più accessibili ai cittadini “anche attraverso le tecnologie digitali”. Perché “il digitale può fare la sua parte, ma l’uomo non può mancare”, ha chiosato Stumpo.

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