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Bisturi e carrozzine a rischio, l’impatto della crisi delle materie prime

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Carrozzine, ausili per disabilità gravi, letti per gli ospedali, apparecchiature diagnostiche per le analisi di laboratorio, attrezzature chirurgiche come bisturi e forbici. Sono solo alcuni esempi dei dispositivi medici che potrebbero non essere più disponibili per le strutture del Sistema sanitario nazionale a causa dell’aumento dei costi delle materie prime e dei semilavorati e dei contratti di appalto con la Pubblica Amministrazione stipulati a condizioni che oggi non sono più sostenibili dalle industrie del comparto.

Lo denuncia con forza – per la verità non è la prima volta – il presidente di Confindustria Dispositivi Medici, Massimiliano Boggetti, che parla di una situazione non più sostenibile dai produttori con sede nel nostro Paese.

Già a fine 2021 il Centro studi dell’associazione aveva diffuso i dati di un’indagine sull’aumento dei prezzi delle materie prime. Che registravano rispetto al 2019 incrementi tra il 3,8% del legno al 104,3% dello stagno, passando per l’83% del gas naturale oggi protagonista del contendere interazionale a seguito del conflitto armato in atto in Ucraina. Con un conseguente impatto indiretto sull’industria del settore, costretta a subire l’impennata dei costi per i trasporti delle materie prime, dei semilavorati e delle finiture che raggiunge anche il 200%. E un +52% dei costi per le finiture.

Aumenti che si riflettevano in un rialzo del 29,6% dei prodotti finiti. Numeri che le imprese non riescono ad assorbire completamente. “Il nostro comparto è sinonimo di tecnologia al servizio della salute, fatta di elettronica, informatica, robotica, chimica e biologia che si avvalgono anche dell’utilizzo di metalli rari il cui costo è salito alle stelle perché non è calmierato”, commenta Boggetti a Fortune Italia.

“Come aziende vorremmo anche cercare altri fornitori di materie prime e semilavorati che ci permettano di contenere l’aumento dei costi, ma è pressoché impossibile. Per chi produce dispositivi medici, cambiare anche un solo fornitore significa dover iniziare un nuovo iter di certificazione del nuovo fornitore stesso e del prodotto finito che utilizza i suoi materiali”. Cosa che richiede molto tempo per istruire tutta la pratica presso gli organismi notificati. Tempo che oggi non è a disposizione né delle aziende, né del Ssn che necessita delle forniture dei prodotti finiti secondo quanto previsto dai contratti di appalto in termini di costi e di volumi.

Contratti che ora rischiano di diventare un capestro per le aziende: “I prezzi sono fissi, nonostante gli aumenti delle materie prime e ci sono anche clausole circa la garanzia di poter consegnare specifici volumi di prodotto”, denuncia il presidente. Che dice anche di aver chiesto l’intervento dell’Anac, la quale comprendendo il problema si è fatta latrice della richiesta al ministero della Salute. “Ma tutto si è bloccato e non abbiamo avuto risposta. La realtà è che le Regioni non vogliono rivedere i contratti. Eppure il rischio di non riuscire a fornire il Ssn esiste. Le aziende sono in seria difficoltà, perché molto dipende dall’import e l’Italia è molto esposta. Già da prima della pandemia avevamo denunciato la quasi totale inesistenza di un mercato domestico. Parole non ascoltate. E ora stiamo scontandone gli effetti”.

L’allarme però no interessa solo i produttori, ma anche chi i dispositivi medici li utilizza ogni giorno nella pratica clinica. Come denuncia Tommaso Trenti, presidente Sibioc (Società Italiana di Biochimica Clinica e Biologia Molecolare Clinica-Medicina di Laboratorio): “È di estrema preoccupazione l’allarme lanciato da Confindustria Dispositivi Medici sulla difficoltà di approvvigionamento di diagnostici in vitro e sulla conseguente difficoltà a soddisfare i contratti in essere, sia in termini di volumi e tipologia di fornitura sia di valorizzazione economica. Se come società scientifica comprendiamo il rischio per le imprese del diagnostico di essere inserite nel casellario informatico dell’Anac segnalate per inadempienza contrattuale oltre a tutte le difficoltà dovute all’aumento dei costi e con la conseguente richiesta di revisione dei contratti, grande è la preoccupazione per i laboratori medici di dover gestire una situazione senza poter agire sulle cause che l’hanno creata. La carenza delle forniture rende potenzialmente impossibile per i laboratori medici soddisfare le esigenze cliniche con ricadute negative sul paziente, sull’intero sistema sanitario nazionale e sull’accesso alle cure”.

“Unica possibile risposta – continua – è definire una strategia di azioni pianificate e di priorità riconosciute con tutti gli stakeholder (ministero della Salute, ministero dello Sviluppo Economico, assessorati regionali, società scientifiche, associazioni di pazienti) per fornire un chiaro indirizzo per prevenire ulteriori criticità a danno del sistema delle cure nelle sue articolazioni e dei cittadini”.

Le imprese allora cosa chiedono al governo? Fondi, detrazioni fiscali, minor pressione fiscale? Risponde tranchant Boggetti: “Il governo deve farsi carico della ri-negoziazione dei contratti con la Pa rispetto ai quantitativi e ai tempi di consegna. Tutte le conseguenze di una crisi internazionale non possono e non devono cadere solo sulle spalle delle aziende. La guerra è una scelta politica e la politica deve farsi carico della situazione. Se il governo non interviene è perché non lo vuole fare, non perché non può. Sul comparto dei dispositivi medici già gravano tasse maggiorate come il payback e il 7% sull’innovazione. Dal momento che siamo in tempi di guerra, almeno queste due tasse potrebbero essere sospese”.

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