Alimentazione, tumori e invecchiamento. La ricerca italiana

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Siamo ciò che mangiamo. Alla scoperta dei progetti di ricerca che indagano sul legame tra alimentazione, tumori ed età biologica, con gli scienziati dell’IRCCS Neuromed  

Quante volte ci è capitato di pensare che una persona non dimostrasse la propria età? Talvolta perché appariva più fresca e giovane o, viceversa, perché sembrava portare male gli anni. Ebbene, non è solo questione di cura di sé, abbigliamento, finanche make-up, se parliamo delle signore.

Le evidenze scientifiche ci dicono proprio che l’età che definiamo ‘biologica’ non sempre coincide con quella anagrafica; a volte a nostro vantaggio, a volte no. Questione di genetica, dicono alcuni. Ed è vero. Ma è anche di stili di vita e alimentazione, che possono incidere nel bene o nel male sull’invecchiamento delle nostre cellule e dei nostri organi. Fino a determinare una riduzione o un aumento del rischio di sviluppare tumori.

Alimentazione e tumori: binomio sotto la lente di ‘Umberto’

In effetti, l’adagio ‘siamo ciò che mangiamo’ pare avere davvero un fondamento scientifico. E sono sempre più numerose le ricerche volte a indagare se determinati stili di vita, alimentazione inclusa, influiscono sul nostro stato di salute. E, soprattutto, in che modo. Se fanno bene oppure no e quali effetti, benefici o meno, producono sul nostro organismo.

Fortemente focalizzato su questo tipo di indagini scientifiche è l’IRCCS Neuromed di Pozzilli, in provincia di Isernia, che lo scorso novembre ha inaugurato la Piattaforma di ricerca congiunta tra il Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione dell’istituto molisano e la Fondazione Umberto Veronesi. L’obiettivo è approfondire il rapporto tra alimentazione e tumori, con un focus particolare sulla dieta mediterranea, che è al centro del progetto Umberto. “Si tratta di un progetto quinquennale che si propone di indagare la relazione tra alimentazione e rischio di tumori, utilizzando i dati sulle abitudini alimentari e lo stato di salute che raccogliamo dalla coorte di 25.000 persone arruolate nel progetto Moli-Sani del nostro istituto, una delle più ampie d’Europa. Indagheremo le relazioni tra l’alimentazione delle persone e lo sviluppo dei tumori più diffusi in Italia, come quello al seno per le donne, quello alla prostata per gli uomini e quello al colon retto”, spiega Marialaura Bonaccio, epidemiologa del Dipartimento e responsabile della Piattaforma congiunta.

A essere analizzata sarà proprio la relazione tra salute e dieta mediterranea nel suo insieme, ma anche alcuni gruppi di alimenti specifici, come ad esempio i vari tipi di frutta, verdura, ma anche di carni, più volte finite sotto accusa.

Aggiunge Bonaccio: “Oltre ad analizzare l’impatto della dieta, cercheremo di capire quanto lo stile di vita nel suo insieme sia in grado di modulare il rischio di tumore nella nostra popolazione; pertanto dedicheremo ampio spazio anche al ruolo dell’attività fisica e dell’abitudine al fumo, in combinazione con le abitudini alimentari”. Un ulteriore obiettivo del progetto Umberto è indagare quali sono i meccanismi biologici alla base dalla relazione tra stile di vita e tumori. In particolare, i riflettori saranno puntati sull’infiammazione subclinica, una condizione non evidente clinicamente ma a cui tutti siamo esposti a vario grado. “L’importanza di capire cosa regola l’infiammazione subclinica e se è in qualche modo influenzata dai nostri stili di vita e dall’alimentazione è insita nel fatto che essa è un fattore predisponente per le malattie cronico-degenerative”, dice la ricercatrice. Che tiene ad aggiungere: “Sempre in tema di rapporto cibo-tumori, un’altra linea di ricerca punta ad analizzare il ruolo dell’alimentazione nella coorte Athena, composta da circa 300 donne con una diagnosi di tumore al seno, trattate con radioterapia. Obiettivo: capire come l’alimentazione può influire sugli effetti della radioterapia ed eventualmente sull’evoluzione di questa malattia”.

Il progetto Umberto è appena iniziato. Quando saranno disponibili i primi risultati? “Il lavoro di analisi è già in corso e a breve contiamo di pubblicare i primi risultati, in particolare quelli relativi al tumore al seno – precisa Bonaccio – Posso anticipare che, analizzando circa 2mila persone della coorte Moli-sani, abbiamo potuto vedere che nelle persone che nel tempo hanno aumentato la propria aderenza alla dieta mediterranea, si è modificato positivamente il proprio stato infiammatorio.  In particolare, l’effetto favorevole è stato osservato in coloro che hanno aumentato il consumo dei cosiddetti grassi ‘buoni’, quelli monoinsaturi, o anche di fibre alimentari. Si tratta di un dato molto importante perché il livello di infiammazione subclinica è direttamente correlato con il rischio di sviluppare tumori”.

Dimmi cosa mangi e ti dirò quanti anni hai

L’alimentazione non influisce solo sul rischio di sviluppare i tumori. Può avere effetti anche sull’invecchiamento del nostro corpo. Non si parla più solo di alimenti in grado di proteggere dai danni dei radicali liberi o di quelli che producono uno stresso ossidativo dannoso per le nostre cellule.

Oggi la ricerca scientifica va molto più in profondità. Ed è arrivata a studiare come gli stili di vita influenzano l’invecchiamento biologico. Puntualizza Alessandro Gialluisi, ricercatore dell’Università dell’Insubria di Varese e dell’IRCCS Neuromed: “Per invecchiamento biologico intendiamo l’età effettiva del nostro organismo o di alcuni apparati, organi e tessuti, che non sempre corrisponde alla nostra età anagrafica”.

Detta così sembra semplice. Ma se l’età anagrafica è determinata dalla data di nascita, come facciamo a conoscere quella biologica e come si fa a misurarla? Ecco che entra in gioco l’intelligenza artificiale. Dice Gialluisi: “Per misurare l’età biologica di una persona usiamo indici basati su algoritmi di machine learning, chiamati ‘reti neurali profonde’, che funzionano in modo simile al cervello umano. Inseriamo negli algoritmi una serie di biomarker del sangue, da test ematochimici a conta leucocitaria, chiedendo di stimare un valore di età più vicina possibile a quella anagrafica della persona a cui appartengono quei valori. Otteniamo così un numero espresso in anni, che non coincide mai con l’età stampata sulla carta di identità, cioè la nostra età biologica. Dalla sottrazione tra età biologica ed età anagrafica otteniamo l’indice di invecchiamento biologico: se è positivo, significa che l’individuo è più vecchio della sua età anagrafica, se è negativo indica che è più giovane”.

Insomma, se ci sentiamo più o meno vitali rispetto ai nostri coetanei possiamo additare come colpevole la nostra età biologica? Non esattamente. Giacché l’età biologica è sì determinata da fattori genetici, per loro natura non modificabili. Ma anche da fattori esterni, modificabili, su cui noi possiamo agire: stili di vita e alimentazione.

Il nodo della questione è riuscire a capire come gli stili di vita si associano a un invecchiamento biologico più veloce o più rallentato. Direzione in cui si sta muovendo il gruppo di ricerca dell’Istituto Neuromed in cui lavora Gialluisi. Che spiega: “In diversi studi pubblicati abbiamo notato che un’alta aderenza alla dieta mediterranea è associata a un indice di invecchiamento biologico negativo. In altre parole, chi segue questo modello alimentare invecchia più lentamente e presumibilmente meglio. Abbiamo poi indagato la relazione tra l’invecchiamento biologico e una serie di parametri come la capacità antiossidante della dieta, il contenuto di polifenoli, e anche il potenziale pro-infiammatorio degli alimenti. Abbiamo rilevato che erano associazioni in linea con quanto ci si aspettava: i polifenoli sembrano rallentare il tasso di invecchiamento biologico, mentre consumare alimenti con alto potenziale pro-infiammatorio sembra accelerarlo”.

Orologio biologico: possibile ‘registrarlo’?

Vien da chiedersi allora se sia possibile agire sui fattori modificabili non solo per cercare di invecchiare meglio dal punto di vista biologico, ma anche per riallineare la nostra età biologica con quella anagrafica, qualora la prima abbia allungato troppo il passo.

Ecco cosa risponde il ricercatore: “Ci sono fattori di rischio modificabili su cui si può agire per contrastare e rallentare l’invecchiamento biologico”. In altri termini, se i nostri geni ci predispongono a essere biologicamente più giovani della nostra età ma viviamo una vita sregolata, è probabile che perderemo il nostro beneficio genetico. Viceversa, qualora la genetica non sia proprio dalla nostra parte, seguendo stili di vita sani potremo mitigare gli effetti negativi scaturiti dal nostro Dna. Correndo con la fantasia potremmo forse immaginare un elisir di lunga vita fatto di alimentazione sana e passeggiate all’aria aperta? Forse non proprio, ma “si potrebbe arrivare a eseguire screening ad personam per identificare l’età biologica di ciascuno di noi e stilare strategie mirate per rallentare il processo di invecchiamento, agendo sui fattori esterni quali dieta e altri stili di vita in primis, e che influenzano l’invecchiamento biologico – continua Gialluisi – Potremmo persino pensare di ridurre lo scarto tra l’età biologica e l’età anagrafica, qualora questo risulti particolarmente sfavorevole”. Delle vere e proprie strategie personalizzate di invecchiamento in salute.

Ma c’è di più nel futuro della ricerca delle connessioni tra alimentazione e invecchiamento. Chiosa il ricercatore, con una nota di vero ottimismo: “Sappiamo che esistono anche indici di invecchiamento organo-specifici. L’invecchiamento dell’organismo nel suo complesso è determinato da distretti e organi che invecchiano anche a velocità differenti. Quindi, se si riuscisse a screenare l’indice di invecchiamento in salute della popolazione attraverso parametri organo-specifici, si potrebbero stilare strategie personalizzate di prevenzione dell’invecchiamento, agendo anche a livello di singolo organo o apparato”.

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