Intelligenza artificiale, occhio alla sindrome del copione

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Come ci cambierà la vita la pervasiva presenza dell’Intelligenza Artificiale? Quanto andrà a impattare sulla modalità di rapporto più impiegata nel mondo dell’educazione e del lavoro, ovvero il colloquio? E in che modo, da utenti, saremo portati a percepire percorsi lessicali ispirati dall’AI riconoscendoli validi sul fronte razionale, ma probabilmente meno “umani” sotto il profilo emotivo?

E’ un panorama pieno di questioni tutte da risolvere quello che si preannuncia per il futuro, con il diffondersi degli strumenti legati all’impiego dell’AI anche nei rapporti interpersonali. A fare chiarezza, in modo ovviamente parziale vista la complessità del mosaico che si va disegnando e che appare in costante mutamento, ci prova una ricerca che ha visto protagonista un’equipe dell’Università Cornell (tra gli esperti coinvolti da Jess Hohenstein e Malte F. Jung) apparsa su Scientific Reports.

Lo studio mostra una volta di più come si rischia una dicotomia nelle percezioni, quando si parla di AI. Da un lato chi ascolta un percorso razionale impostato grazie a tecniche di Intelligenza Artificiale recepisce sicuramente sicurezza e, comunque, un senso di positività maggiore nell’interlocutore. Ma dall’altro sotto la guida di un pensiero così elaborato si rischia di perdere in autenticità, in una sorta di percorso comunicativo che diventa meno originale e quindi viene percepito in modo peggiore dall’interlocutore.

Insomma: il “presto e bene” legato all’uniformità di un tracciato culturale e nosologico imposto dalle analisi e conseguenti proposte dell’informatica rischia di scontrarsi con la dimensione sociale di chi ascolta. E i risultati, anche sul fronte professionale e aziendale, rischiano di non essere quelli voluti, almeno per quanto riguarda l’emozione di una condivisione.

Le altre persone, come segnalano gli esperti nella ricerca, tendono a identificare chi sfrutta l’AI per esporre le proprie teorie in modo standardizzato, come una sorta di sindrome potremmo definire del “copione”. La perfezione nel ragionamento, o magari qualcosa che si avvicina, da un lato che affascina cerebralmente, ma ci può diventare meno gradevole sul piano emotivo. E per l’AI che guida un percorso di comunicazione interpersonale si corre proprio questo rischio.

L’esperimento messo a punto dagli studiosi è sicuramente interessante. Tutto si basa su una piattaforma di AI che permette di sviluppare risposte intelligenti, generate da speciali modelli di linguaggio di ampie dimensioni che portano a sviluppare risposte plausibili in una chat, adattandosi alle interazioni presenti nella discussione, ovviamente non programmabili.

Ebbene, dai test proposti in modo vario è emerso che grazie alle risposte guidate dall’AI si è migliorata la comunicazione e si è pià spesso percepito un linguaggio comunque positivo, con un’elevata frequenza di risposta intelligenti in chat. Ma attenzione: l’altro lato della bilancia non è così soddisfacente per la tecnologia.

Quando un interlocutore aveva il sospetto che a guidare le risposte fosse stata proprio l’AI, la percezione di quanto riportato diventava comunque negativa, come se la tecnologia fosse uno strumento in grado di togliere originalità e personalizzazione al messaggio.

Come a dire che probabilmente, sul fronte del risultato ottenuto, grazie all’AI i nostri messaggi potranno diventare più efficaci e comunque ben percepiti. Ma se l’altro ha la percezione di trovarsi di fronte a un ragionamento impostato dalla tecnologia, il timore della disumanizzazione può diventare un nemico.

C’è tanto da fare, insomma. Per chi comunica e per chi recepisce i messaggi. Perché non bisogna rischiare che la tecnologia impatti sulla socialità, venendo percepita come potenziale fattore disumanizzante e non come ausilio per migliorare i rapporti, professionali e non.

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