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Alzheimer: predisposizione e grasso viscerale. Parla il neurologo

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“Che l‘obesità in alcune sue forme, in associazione con la sedentarietà e bassa attività cognitiva, costituisca un fattore di rischio Alzheimer è un elemento ben noto”. A sottolinearlo a Fortune Italia è Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’Irccs San Raffaele Roma, commentando lo studio della Washington University che “mette in correlazione la presenza e quantità di grasso viscerale con il metabolismo di alcune proteine che sono coinvolte con uno dei possibili meccanismi dell‘Alzheimer e alcune caratteristiche della morfologia e del metabolismo del cervello”.

I numeri

Nel mondo circa 55 milioni di persone hanno una forma di demenza, e in Italia si stima che il problema riguardi oltre 1.480.000 persone. Un numero destinato a crescere molto velocemente, con l’invecchiamento della popolazione. Ogni 3 secondi, infatti, una persona si ammala di demenza, secondo l’ultimo rapporto mondiale Alzheimer dell’Alzheimer’s Disease International (Adi). Ecco allora che, mentre si avvicinano nuove terapie per frenare questa patologia, la diagnosi precoce diventa sempre più importante.

Il grasso addominale e la predisposizione all’Alzheimer

Secondo la ricerca Usa, avere nella mezza età quantità più elevate di grasso viscerale nell’addome sembra collegato allo sviluppo della malattia di Alzheimer. Lo studio sarà esaminato all’incontro della Radiological Society of North America (Rsna), in programma dal 26 novembre a Chicago. I ricercatori hanno scoperto che questo grasso addominale nascosto sarebbe correlato a cambiamenti nel cervello fino a 15 anni prima che si manifestino i sintomi di perdita della memoria.

Gli studiosi hanno valutato l’associazione tra i volumi della risonanza magnetica cerebrale, l’assorbimento di amiloide e tau – proteine ​​che si ritiene interferiscano con la comunicazione tra le cellule cerebrali – nelle scansioni Pet, e l’indice di massa corporea (Bmi), l’obesità, la resistenza all’insulina e il grasso addominale in una piccola popolazione di mezza età normale da un punto di vista cognitivo, come riferisce Adnkronos Salute.

La ricerca

I ricercatori hanno analizzato i dati di 54 partecipanti, tutti cognitivamente sani, tra 40 e 60 anni, con un Bmi medio di 32, sottoposti a misurazioni del glucosio e dell’insulina, nonché a test di tolleranza al glucosio. Il volume del grasso sottocutaneo e del grasso viscerale è stato con la risonanza magnetica addominale. La risonanza magnetica cerebrale ha misurato lo spessore corticale delle regioni cerebrali che vengono colpite dall’Alzheimer. La Pet è stata utilizzata per esaminare eventuali elementi patologici in un sottogruppo di 32 partecipanti, concentrandosi sulle placche amiloidi e sui grovigli tau che si accumulano nella malattia di Alzheimer.

Risultato? Un rapporto più elevato tra grasso viscerale e sottocutaneo era associato a un maggiore assorbimento del tracciante Pet di amiloide nella corteccia del precuneo, regione nota per essere colpita precocemente dalla patologia amiloide nell’Alzheimer. Una relazione peggiore negli uomini.

L’analisi del neurologo

“Gli autori concludono che in 32 sui 54 soggetti esaminati intorno ai loro 50 anni sono riscontrate alcune caratteristiche che, dalla presenza e quantità del grasso addominale, porterebbero alla formazione e deposito di sostanze ad azione tossica che, a loro volta, predisporrebbero alla progressiva degenerazione di cellule e circuiti cerebrali tipici dell’Alzheimer”, sintetizza Rossini.

Ebbene, bisogna dire che “la numerosità della popolazione esaminata è veramente esigua”, nota l’esperto. Invece il concetto che esistano “meccanismi propedeutici alla neurodegenerazione già presenti ed attivi decenni prima dell’esordio dei sintomi non è certo nuovo ed è già ben presente a chi si occupa di questa malattia. Che l’obesità in alcune sue forme costituisca un fattore di rischio è anch’esso un elemento ben noto. Infine, ed il limite più grande di questo studio, non sapremo mai quanti e quando dei 32 soggetti identificati si ammaleranno o meno di Alzheimer: il 10, il 20, il 50 o l’80% e dopo 10, 20, 30 anni oppure mai? In altre e poche parole – conclude Rossini – nulla di nuovo sotto il sole. Il tema è interessante e molto mediatico, ma non aiuta in alcun modo nè per lo studio, nè per la reale prevenzione, nè per l’organizzazione dei servizi”.

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