Un patto per un mondo migliore

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La tesi di base: l’approccio One Health (che unisce i temi della sostenibilità con quelli della salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente) può e deve essere alla base di un pianeta più giusto. Per renderlo parte integrante di qualsiasi politica, serve un patto: tra imprese, accademia, istituzioni e pazienti. Quel patto è stato lanciato durante il Forum One Health di Fortune Italia, che il 22 e 23 novembre ha messo insieme tanti protagonisti e quattro lettere: Esg+H. Secondo l’approccio One Health, all’attenzione per i principi Esg va aggiunta anche quella per la ‘H’ di health. Perché? A spiegarlo meglio è stato uno degli ospiti dell’evento, Ruediger Krech, Director of the Health Promotion Department dell’Oms: “Con una frazione del denaro speso per la pandemia, 11.000 mld di dollari, avremmo potuto eliminare la povertà globale: un esempio di cosa succede quando la salute non viene considerata”.

L’Esg in azienda

Il percorso immaginato durante l’evento non può prevedere doppie velocità. “L’Italia non può permettersi di avere un sistema istituzionale che rincorre le imprese”, ha detto Gian Marco Centinaio, vicepresidente del Senato della Repubblica, aprendo la prima giornata dell’evento. Un concetto che se è adatto alla tecnologia, è altrettanto importante per la sostenibilità. Oltre al fatto che la transizione sostenibile solo in Italia potrebbe generare 1,5 milioni di posti di lavoro, l’Esg ha già iniziato a cambiare le imprese stesse (alcune, non tutte) dall’interno. La strada imperfetta, ma segnata, che porta a integrare la sostenibilità nelle strategie delle aziende, passa anche dalle preferenze di chi le sta pian piano popolando: i giovani. I dati dicono che i ragazzi vogliono cambiare occupazione sempre più frequentemente. Intanto cambiano le imprese: serve “una cultura davvero antropocentrica per coniugare il business con lo sviluppo sostenibile della persona”, dice Fortunato Costantino, direttore Human Resources, Legal & Corporate Affairs Q8. Eppure, ha ricordato Fabio Nalucci, Ceo e Chairman di Gellify, “esiste anche l’imprenditoria tradizionale: il rischio quando si affrontano queste cose è che si parli di una piccola percentuale di lavoratori”.

Il patto One Health e le fragilità del pharma

Quale può essere in concreto il contributo del pharma all’approccio One Health? Serve un patto tra imprese, accademia, istituzioni e pazienti? “Questa è la strada da percorrere”, dice Nicoletta Luppi, President and Managing Director di MSD Italy. “Quando si parla di One Health dobbiamo considerare salute umana, animale e ambientale. Pensiamo all’epidemia di ebola, non solo alla pandemia. Tra le cause c’è il clima, la globalizzazione, le commistioni generate dalla convivenza tra esseri umani e animali”. Renato Loiero, consigliere della Presidenza del Consiglio, è d’accordo sulla necessità di finanziare la salute: “Non bisogna lesinare negli investimenti”, facendo riferimento all’incremento del fondo sanitario nazionale da 11 mld di euro nell’arco del triennio previsto dalla Legge di bilancio.

Ma il sistema industriale che mette a disposizione i farmaci – componente fondamentale di una rinnovata attenzione alla salute – ha fragilità complesse, nonostante il pharma valga 49 mld di produzione nel 2022 e investimenti pari a 3,3 mld in produzione e R&S. Valentino Confalone, componente del Comitato di Presidenza di Farmindustria, spiega che non è scontato riuscire a mantenere quei numeri. Il sistema salute, dice, rimane sottofinanziato, con una complessità di regole che limita la crescita. Un esempio di fragilità? La carenza di farmaci: in 10 anni sono scomparsi dai mercati europei il 26% degli equivalenti, il 33% degli antibiotici e il 40% dei farmaci oncologici. Un fenomeno legato ai prezzi.

Con la nuova Aifa, l’Agenzia del farmaco che a novembre ha ricevuto il semaforo verde della conferenza Stato-Regioni, si ha un’opportunità, per Umberto Comberiati, Ad di Teva Italia. Nel caso dei farmaci ‘fragili’ che costano pochi euro, si può “ripensare un sistema che permetta un adeguamento dei prezzi in funzione delle condizioni macroeconomiche”. C’è poi un discorso di competitività: il 60% delle materie prime di tutti i farmaci, spiega Comberiati, “è nelle mani di India e Cina”.

Altro punto delicato: l’innovazione. Secondo Elisabetta Iannelli, segretario generale Favo, “sui farmaci innovativi comincia a serpeggiare una certa preoccupazione nell’ambito delle associazioni di pazienti. Le case madri dall’estero non sono tanto contente di investire in Italia”. Insomma, è un problema delle aziende o del sistema Paese? Luppi (MSD) ricorda che “abbiamo investito 80 mln di euro lo scorso anno in ricerca in Italia, nel nostro caso l’80% della ricerca è stato in oncologia. Il problema non è nelle case madri: il Paese deve capire come rendersi attrattivo”.

Confalone ricorda poi che “rimane un passo da fare molto importante per essere ancora hub di ricerca: la parte contrattuale”. Bisogna iniziare “durante la fase di approvazione”, quindi. Mentre ora “c’è una tendenza ad attendere l’approvazione dei comitati. Questa inefficienza la dobbiamo eliminare”. Inoltre, quanto alla sostenibilità dell’innovazione, Confalone suggerisce di considerare i farmaci per terapie avanzate investimenti – con allineamento all’effettiva efficacia – invece che “spese correnti che pesano sul bilancio dello Stato per l’intero importo. Questo garantirebbe facilità di accesso”.

Terapie innovative tra pubblico e privato

Ma come si può favorire l’innovazione? Ancora una volta, facendo parlare tra loro pubblico e privato. Le terapie innovative mettono in discussione i modelli organizzativi del sistema sanitario nazionale, ricorda Angela Adduce, Ispettore Generale Capo Igespes. Il sistema dovrà garantire che “le cure possano essere alla portata del sistema, dovranno avere una compatibilità finanziaria sugli esercizi di bilancio. Si stanno valutando diversi modelli di finanziamento di queste terapie”. Un esempio dei risultati che si possono ottenere se pubblico e privato lavorano insieme? Riccardo Ena, Executive Director PTC Therapeutics, ha spiegato quanto, nel caso di trattamenti costosi, la “collaborazione tra pubblico e privato sia fondamentale”. Di recente, lavorando sul caso di un bambino affetto da una gravissima malattia rara con il Policlinico Umberto I, è stato possibile intervenire in un tempo record. Tutti dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, ha ricordato Ena, “uscendo dall’ottica della spesa”.

Innovazione e responsabilità sociale

Innovare sì, ma con responsabilità. “La nostra ricerca innovativa – ha affermato Michelangelo Simonelli, Senior Director Government Affairs Gilead Sciences Italia – è testimoniata da una pipeline con più 50 molecole in diverse fasi di sviluppo e da 182 trial clinici con oltre 85.700 pazienti e 112 centri coinvolti fino al 2022 e ha determinato il cambiamento radicale del corso di alcune malattie ritenute globali dalla stessa Oms, quali l’Hiv e le epatiti, o miglioramento dello stato di salute in patologie difficili da trattare, prive di soluzioni terapeutiche, quali quelle relative all’ambito oncologico. Entro il 2030 puntiamo a rendere disponibili terapie trasformative con oltre 20 indicazioni, in grado di ridefinire gli attuali standard di trattamento per diversi tumori e avere un impatto significativo per la vita di più di 400.000 persone. Ma ci impegniamo anche con diverse iniziative di responsabilità sociale affinché i nostri farmaci raggiungano il maggior numero di pazienti in tutto il mondo”. I pazienti, appunto: la responsabilità sociale è una necessità anche per loro, secondo Loredana Pau, vicepresidente Europa Donna. “C’è bisogno del supporto di tutti. Stakeholder, case farmaceutiche, istituzioni, associazioni”. La risposta potrebbe essere proprio l’approccio One Health, che ha sempre più successo. Stefano Vella, adjunct professor Global Health Università Cattolica, ha ricordato “il ‘pandemic fund’ di Banca mondiale e Oms che serve a prepararci a una possibile pandemia in ottica One Health”.

L’importanza dei dati

La sfida One Health passa anche dagli ecosistemi, dagli impatti sul clima e dalla necessità di sorvegliare, in ottica di prevenzione, non solo la salute umana, ma anche quella animale. Che ha un impatto gigantesco dal punto di vista della diffusione della malattia. Barbara Capacetti, Country medical director & vice president di Pfizer Italia, ricorda che per prepararsi a una potenziale pandemia la sorveglianza epidemiologica è fondamentale. Ma serve anche “rinforzare la capacità dei laboratori di poter sequenziare” i geni dei patogeni, per poter arrivare prima a una contromossa. Massimo Ciccozzi, ordinario di epidemiologia e statistica sanitaria dell’Università Campus Bio-Medico, dice che per affrontare le minacce epidemiologiche “i dati sono la cosa più importante. Le ricerche ci danno informazioni su cosa stiamo affrontando, il brutto è che questi dati non sono messi in comune tra ricercatori. Le stesse Regioni italiane tra di loro non parlano”.

La carenza di antibiotici

Gli studi per i nuovi antibiotici sono diminuiti. Ci sono solo 77 antibiotici allo studio in questo momento in Italia. Intanto, l’antimicrobico resistenza ha un bilancio tragico. Matteo Bassetti, professore di Malattie Infettive Università degli Studi di Genova, parla di circa 30mila morti l’anno. Due facce di una stessa medaglia? Lucia Aleotti, azionista e membro del Cda Menarini, sottolinea la carenza di nuovi antibiotici per il paziente che ha preso un’infezione da patogeno resistente. “Per tutti gli altri mondi della malattia si è trovata una soluzione che ha consentito alle imprese di continuare a produrre nuovi trattamenti. Tutti gli altri settori continuano a prosperare dal punto di vista della ricerca. Gli antibiotici no: non esiste nessun appeal nel portare un nuovo antibiotico in commercio”. Per cambiare le cose “la commercializzazione dei nuovi antibiotici deve essere appetibile per l’industria”, dice Aleotti. E ora non lo è. Quando la sua azienda, Menarini, è entrata nel settore “gli analisti ci dicevano ‘non fatelo’. A distanza di sette anni devo dire che avevano ragione”. La soluzione? Quello degli antibiotici deve diventare in mondo “interessante” per le aziende farmaceutiche.

Quanto è lontana la terapia giusta?

Di fronte a terapie innovative che promettono di rivoluzionare la cura di alcune patologie ci sono delle domande che si fanno i pazienti: queste cure saranno adatte a me? Ma soprattutto: quanto è lontana, letteralmente, la terapia giusta? Per Annalisa Scopinaro, presidente di Uniamo, si passa attraverso dei passaggi non comprensibili alla cittadinanza. “Molte delle terapie oggi in commercio sono davvero specifiche: quella sulla Sma, ad esempio, non è per tutti. Alcuni bambini non accedono perché non è adatta al loro tipo di malattia. L’accesso è un parola omnicomprensiva, significa anche non doversi spostare di mille km per fare una terapia”. La risposta si potrebbe trovare in farmacia: questo esercizio si sta trasformando in presidio sanitario di prossimità territoriale. Roberto Tobia, segretario nazionale Federfarma, racconta che qualche tempo fa “in dieci giorni sono stati diagnosticati 4.000 casi di diabete: moltiplichiamo per tutto l’anno un dato come questo” e il raggio d’azione delle farmacie aumenta considerevolmente.

Il premio One Health

Nel corso dell’evento è stato assegnato il primo Premio One Health di Fortune Italia, nato dall’evoluzione del Premio “Startup Award in Healthcare e Life science”. L’advisory board (Marta Bertolaso, Sandro Bosso, Mara Campitiello, Domenico Otranto, Bernardino Quattrociocchi, Marcella Trombetta) ha indicato, tra le startup candidate, tre finaliste. A vincere è stata Naicons: con una banca dati di molecole la startup cerca di ridurre la sperimentazione animale tagliando anche i tempi di arrivo in produzione. Tra i finalisti anche Ingeno, che si occupa di wellness e Paperbox health, che ha creato un videogioco per la diagnosi del Disturbo specifico dell’apprendimento.

 

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