Alzheimer, un test intercetta il rischio in super anticipo. L’analisi

Alzheimer
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Mentre la ricerca si concentra su soluzioni in grado di rallentare la corsa dell’Alzheimer, si sviluppano device in grado di riconoscere precocemente i segni della malattia. È il caso di un nuovo test del sangue che, secondo uno studio, consentirebbe di individiare i pazienti a rischio con un grandissimo anticipo: anche 15 anni prima dei sintomi dell’Alzheimer. E questo misurando i livelli della proteina ptau217, in modo semplice e non invasivo, come si legge sulla stampa britannica. Tutto bene, allora?

Il test è già in commercio e il lavoro, pubblicato su ‘Jama Neurology’, appare molto interessante considerati i numeri della malattia che ruba i ricordi. Ma di che si tratta? E davvero possiamo pensare a uno screening in grado di individuare davvero – e a costi contenuti – i soggetti più a rischio? Fortune Italia lo ha chiesto a Paolo Maria Rossini, responsabile del Dipartimento di Scienze neurologiche e riabilitative dell’Irccs San Raffaele Roma.

La sfida

“L’articolo, pubblicato di recente su Jama Neurology, riguarda un tema di grandissimo interesse e cioè poter disporre di un test a costo sostenibile, non-invasivo ed altamente accurato per prevedere l’insorgenza di demenza anche in soggetti che non manifestano ancora sintomi”, dice Rossini.

Lo studio, coordinato da un team dell’università di Göteborg in Svezia, “ha raccolto dati da un’analisi multicentrica con gruppi britannici, statunitensi, canadesi, spagnoli e di altre nazioni europee. Il lavoro ha riguardato la misurazione della proteina nel sangue di oltre 800 soggetti in cui erano stati raccolti altri tipi di biomarcatori” attraverso diversi esami (es. il liquido cefalorachidiano, la risonanza magnetica, la Pet).

La proteina spia

“I risultati – sottolinea Rossini – hanno dimostrato un’altissima correlazione (oltre il 95%) tra i tassi di proteina nel sangue rispetto ai medesimi ritrovati nel liquor (tramite una procedura molto più invasiva e anche un poco pericolosa come la puntura lombare) e nella Pet (tramite una procedura estremamente costosa e scarsamente disponibile sul territorio come la Tomografia ad Emissione di Positroni). Sembrerebbe quindi un’ottima soluzione per uno screening di massa in soggetti a rischio Alzheimer, cioè tutti gli ultra50enni, con costi sostenibili. Questa – continua Rossini – è la parte più incoraggiante della notizia”.

Le criticità

Ma attenzione: “Ci sono numerosi aspetti che ne diminuiscono e di parecchio l’impatto e l’applicabilità pratica da parte di un ente di salute pubblica, come il nostro Ssn”, puntualizza l’esperto. Gli autori dichiarano correttamente che il loro test non permette di fare diagnosi, ma di definire un rischio per lo sviluppo della malattia/demenza. Sappiamo infatti molto bene che l’identificazione di sostanze ‘killers’ quali le placche di beta-amiloide ed i grovigli neurofibrillari di proteina tau nel cervello di soggetti anziani si associa molto spesso alla presenza di una demenza progressiva, ma anche che in un numero non banale di casi (oltre il 30%) coloro che sono portatori di tali sostanze non svilupperanno mai demenza, forse perchè posseggono fattori di protezione (come una riserva neurale e cognitiva)”. Ecco, questi soggetti sarebbero posivi al test.

Manca un follow-up adeguato

Non solo. “Per vedere se l’esame proposto è in grado di predire lo sviluppo di demenza, lo studio avrebbe dovuto includere un follow-up adeguato di gruppi omogenei portatori e non-portatori della proteina alterata per almeno 3 anni, al termine dei quale poter definire in che percentuale la presenza della proteina aveva previsto o meno l’arrivo dell’Alzheimer. Questo follow-up non è stato effettuato”, nota Rossini.

Alzheimer ladro di futuro

Non si tratta di obiezioni marginali: “Parliamo di una malattia che distrugge la vita e anche la reputazione di una persona. Il solo classificare qualcuno come ad ‘alto rischio’ di demenza quando ancora non ha nessun sintomo – riflette il neurologo – equivale ad eliminare qualsiasi prospettiva di carriera, azzerarne il ruolo in ambito socio-politico e anche a ridurne ampiamente i progetti ed i programmi per il futuro”.

“La procedura di analisi è stata centralizzata e, se non comprendo male, finanziata da una ditta californiana, cosa del tutto legittima e comprensibile vista l’enorme ‘business’ che un test di questo genere verrebbe a rappresentare. Occorre quindi effettuare una procedura di ‘validazione’ (ad esempio  confermare i valori se sono prelevati 2 o 3 volte in tempi diversi nel medesimo paziente ed anche facendo il dosaggio sul medesimo campione in laboratori differenti). A differenza poi di altri biomarcatori, in cui i falsi-positivi o falsi negativi divengono evidenti dopo pochi mesi o al massimo un anno nel caso dei tumori, nella malattia di cui parliamo (demenza su base neurodegenerativa) il tempo si allunga enormemente anche sino a 10 anni ed oltre. Un tempo troppo lungo per accettare un rischio di errore. Nell’insieme – conclude Rossini – a me sembra un importante passo avanti ma che necessita di validazioni su numeri più ampi, in centri diversi, rappresentativi di varie realtà nazionali e territoriali. E con un follow-up adeguato”.

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