Putin e le voci sul tumore alla tiroide, di cosa si tratta

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Mentre la guerra in Ucraina continua, non si placano le voci sulla salute (precaria?) del presidente russo Vladimir Putin. Questa volta è il caso del tumore alla tiroide: sembra infatti che Putin venga spesso visitato da un medico specializzato proprio nel trattamento chirurgico del tumore alla tiroide, secondo Radio Svoboda, che cita il giornale russo indipendente ‘Project’.

Il giornale ha diffuso un elenco di medici personali al seguito del presidente russo nei suoi viaggi. Fra questi anche l’endocrinologo del Central Clinical Hospital di Mosca Evgeny Selivanov, che avrebbe accompagnato Putin nei suoi viaggi almeno 35 volte in quattro anni. ‘Project’ è un media russo indipendente per il quale lavorano giornalisti anonimi, che cercano di portare avanti inchieste libere in Russia. Se il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha già smentito che Putin abbia un tumore, Fortune Italia ha approfondito il tema con Maria Luisa Appetecchia, responsabile dell’Endocrinologia oncologica del Regina Elena-Ifo di Roma.

Quello alla tiroide “è un tumore abbastanza diffuso in Italia: rappresenta – dice Appetecchia – il 2-5% di tutti i tumori, colpisce soprattutto le donne tra i 40 e i 60 anni, e l’incidenza è di 5 casi ogni 100mila abitanti negli uomini contro i 15-18 ogni 100mila per le donne. Il numero di casi è aumentato negli ultimi decenni, soprattutto perché c’è una grande attenzione alla diagnosi, e questo permette di scoprire forme iniziali, anche grazie ad apparecchi più performanti”.

Quali possono essere i sintomi della malattia? “In realtà il segno più comune è la presenza di un nodulo tiroideo nel collo, la cui natura va indagata con l’esame gold standard: l’ago aspirato. Un esame ecoassistito – dice Appetecchia – che ci permette di capire se il nodulo è maligno o meno”.

Un elemento interessante, anche pensando ai rumor su Putin, arriva quando esaminiamo i fattori di rischio: “L’unico accertato è l’esposizione alle radiazioni ionizzati”, assicura Appetecchia. Parliamo di “esposizione a materiale radioattivo, come nel disastro di Chernobyl, che rappresenta un fattore di rischio importante”.

Quanto alla terapia, “il trattamento di prima scelta è quello chirurgico. Dopodiché una volta avuti i risultati dell’esame istologico, si può decidere come procedere. Oggi come oggi se siamo difronte a forme iniziali, la chirurgia può essere risolutiva – dice l’esperta del Regina Elena – In una percentuale minore di casi occorre somministrare iodio radioattivo, che permette di fare l’ablazione di residui di tessuto tiroideo post intervento”. L’obiettivo, in questi casi, è ridurre il rischio di metastasi. “Un pericolo che esiste, ma dobbiamo anche dire che in questi tumori i pazienti hanno una sopravvivenza a 5 anni del 90%”.

Grazie alla ricerca oggi le opzioni terapeutiche a disposizione sono diverse: “Abbiamo la terapia radiometabolica, esistono i farmaci biologici che permettono nei casi più aggressivi un trattamento farmacologico. Ma abbiamo anche i farmaci a bersaglio molecolare, che superano il concetto dell’istotipo e sono mirati alle mutazioni del singolo tumore, agendo in modo selettivo”. Un approccio sempre più mirato “che – conclude l’esperta – sarà sempre più quello del futuro”.

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