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Cuore, gli interventi tornano ai livelli pre-pandemia

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Erano state ‘messe in pausa’ nella prima emergenza Covid, quando la paura del virus aveva portato a evitare gli ospedali. Ma le patologie del cuore non erano scomparse, anzi. A preoccupare gli specialisti, nei mesi scorsi, era proprio il gran numero di visite, controlli e interventi saltati.

Ora coronarografie, angioplastiche, interventi di sostituzione delle valvole cardiache sono tornati ai livelli pre-Covid: dopo lo stop forzato imposto dalla pandemia e un 2020 in cui il numero di procedure di cardiologia interventistica era diminuito in media quasi del 20%, oggi gli interventi registrano un incremento a doppia cifra rispetto all’anno precedente e il volume di procedure ‘salva-cuore’ è pari a quello del 2019.

Le malattie cardiovascolari rappresentano ancora la principale causa di morte nel nostro Paese, in particolare muoiono più di 230 mila persone all’anno tra ischemie, infarti, malattie del cuore e cerebrovascolari.

Ebbene, nel 2021 sono state eseguite 146.529 angioplastiche a fronte di 133.168 registrate nel 2020, le Tavi sono state 9.911 contro soltanto 7.605 eseguite nel 2020, mentre sono ben 278.312 le coronarografie diagnostiche eseguite in tutto il Paese.

La ‘fotografia’ che arriva dal Registro dell’attività dei 273 Laboratori di emodinamica e cardiologia interventistica italiani segnala un settore in ripresa. Anche se ora occorrerà valutare l’effetto di questa ultima, inattesa, ondata Covid. I dati sono stati discussi dagli esperti della Società Italiana di Cardiologia Interventistica (Gise) durante il recente congresso di Napoli.

I dati 2021 del Registro, una realtà unica che monitora fedelmente l’attività di tutta la cardiologia interventistica nel nostro Paese fin dal 1981, mostrano come soprattutto grazie all’impegno del personale sanitario è stato possibile recuperare in gran parte i ritardi dovuti alla pandemia. Gli esperti segnalano tuttavia che i pazienti con patologie del cuore oggi hanno spesso un quadro più compromesso rispetto al passato. In parte questo è l’effetto del rinvio di visite ed esami, causato dalla pandemia. 

Anche per questo diventa ancor più necessario fare uno sforzo per ottimizzare l’organizzazione dei percorsi fra ospedale e territorio, così da gestire al meglio le risorse a disposizione e garantire ai cittadini gli esiti migliori in termini di qualità di vita dopo gli interventi al cuore.

“Nel 2021 finalmente possiamo dire di avere recuperato gran parte dei ritardi nelle procedure interventistiche dovuti alla pandemia: il numero di angioplastiche coronariche con stent, per esempio, è cresciuto del 10% rispetto al 2020 e quello delle Tavi del 30%, gli interventi per ridurre il rischio di ictus come l’occlusione percutanea dell’auricola sinistra o l’occlusione del forame pervio sono aumentati del 30-35% – spiega Giovanni Esposito, presidente Società Italiana di cardiologia Interventistica (Gise) e direttore della Uoc di Cardiologia, Emodinamica e Utic dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli – Tutto ciò è stato reso possibile soprattutto grazie all’impegno e l’abnegazione del personale, che non è aumentato ma si è anzi ridotto”.

Perché in effetti la sanità italiana si trova a fare i conti, ormai da anni, con un’emorragia di specialisti. Anche cardiologi e cardiochirurghi.

Non solo. “L’Italia, soprattutto per l’applicazione delle nuove tecnologie, resta ancora agli ultimi posti in Europa: la riparazione transcatetere della valvola mitrale, per esempio è cresciuta solo del 5% e soprattutto non è ancora diffusa a livelli accettabili per le esigenze cliniche dei cittadini – prosegue Esposito . Inoltre circa 10.000 italiani hanno avuto accesso alla Tavi e il ricorso a questa procedura è in crescita, ma i dati per milione di abitanti mostrano ancora un gap di trattamento e soprattutto un’accentuata variabilità regionale”.

Insomma, “molte persone che avrebbero indicazione alla terapia, non la ricevono – torna a denunciare lo specialista – Infine, anche nel caso delle angioplastiche coronariche con stent, i dati non sono tutti in positivo, sebbene si possa dire che l’impatto di Covid sia stato parzialmente recuperato in termini di numero di prestazioni: soprattutto nella prima fase della pandemia, infatti, i pazienti hanno evitato di recarsi in ospedale anche in presenza di sintomi di infarto, così ora è maggiore il numero di pazienti più complessi e compromessi, con peggiori esiti a lungo termine sulla funzionalità cardiaca complessiva”.

Questo significa che i pazienti oggi hanno spesso un quadro cardiaco più delicato rispetto al passato. “Anche per questo – conclude Esposito – diventa sempre più necessario fare uno sforzo per ottimizzare l’organizzazione dei percorsi fra ospedale e territorio, così da gestire al meglio le risorse a disposizione e garantire ai cittadini gli esiti migliori in termini di qualità di vita dopo gli interventi”.

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