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Lotta ai cambiamenti climatici, la classifica dell’impegno di 59 Paesi

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Novembre si sta dimostrando un mese particolarmente ‘caldo’ dal punto di vista dell’attenzione mediatica dedicata al tema del cambiamento climatico. E in concomitanza con Cop27, arriva il Climate Change Performance Index per il 2023: il ‘momento della verità’ che mette i Paesi faccia a faccia con la loro stessa serietà.

Dopo tutti gli slogan, la propaganda verde, quanto ci stiamo effettivamente impegnando per invertire la rotta e frenare il disastro ambientale? Probabilmente poco. Soprattutto in Italia.

L’obiettivo della conferenza di Glasgow del 2021 per le emissioni zero entro il 2050 sembra ancora lontano. I dati del rapporto sulla performance climatica dei principali Paesi del Pianeta, redatto da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute in collaborazione con Legambiente per l’Italia, si rilevano poco incoraggianti. E anche quest’anno (come i precedenti), le prime tre posizioni sono state volutamente lasciate vacanti perché nessuna nazione ha saputo contenere il riscaldamento climatico entro la soglia di 1,5 gradi centigradi come stabilito dagli accordi di Parigi.

Nella teoria si mostrano tutti interessati, impegnati e sensibili quando si tratta di climate change. Nella pratica le cose stanno un po’ diversamente.

In cima alla classifica dell’Index – che analizza 59 Stati più l’Ue – ci sono i Paesi scandinavi, con Danimarca e Svezia in quarta e quinta posizione. Che continuano a guidare la corsa verso emissioni zero nonostante la crisi energetica, grazie al loro impegno per l’abbandono delle fonti fossili e nello sviluppo delle rinnovabili.

Seguono Cile, Marocco e India che rafforzano l’azione climatica nonostante le loro difficili situazioni economiche. E sui gradini più in basso del podio: i Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili come Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.

La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51° posto perdendo ben 13 posizioni rispetto allo scorso anno: nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo.

E al 52° posto si piazzano gli Stati Uniti, secondo emettitore globale che però guadagna tre posizioni rispetto al 2022: un risultato attribuibile alla nuova politica climatica ed energetica dell’Amministrazione Biden che inizia a dare i suoi primi frutti, grazie al considerevole sostegno finanziario all’azione climatica previsto dall’Inflation Reduction Act.

Tra i Paesi del G20, solo India, Regno Unito e Germania si posizionano nella parte alta della classifica. Mentre l’Unione Europea sale di tre gradini raggiungendo il 19° posto frenata in particolare dalle pessime performance di Ungheria e Polonia che continuano a essere fanalino di coda.

E l’Italia?

Analizzando più nel dettaglio il posizionamento italiano, si evidenzia come il sostanziale immobilismo nella performance climatica sia dovuto al rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili – che vede l’Italia 33esima nella classifica specifica – e a una politica climatica nazionale ancora inadeguata a fronteggiare l’emergenza climatica.

L’attuale Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), consente infatti un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990 entro il 2030.

Serve una drastica inversione di rotta“, è stato il commento Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, che ritiene sia urgente aggiornare al più presto il Piano con un taglio delle emissioni di almeno il 65% entro il 2030.

“Andando ben oltre l’obiettivo del 51% previsto dal Pnrr e confermando il phase-out del carbone entro il 2025, senza ricorrere a nuove centrali a gas, l’Italia può centrare l’obiettivo climatico del 65%, soprattutto grazie al contributo delle rinnovabili. Ma deve velocizzare sia gli interminabili iter di autorizzazione dei grandi impianti industriali alimentati dalle fonti pulite sia quelli delle comunità energetiche, causati soprattutto dai conflitti tra ministero dell’ambiente e della cultura e dalle inadempienze delle regioni”, ha dichiarato Ciafani.

Secondo Climate Analytics, in Italia è possibile raggiungere almeno il 60% nel mix energetico e fino al 90% nel mix elettrico entro il 2030. E arrivare al 100% di rinnovabili nel settore elettrico già nel 2035, creando così le condizioni per giungere alla neutralità climatica ben prima del 2050.

Una scelta già operata dalla Germania: che si è impegnata attraverso il 100% di produzione elettrica rinnovabile entro il 2035.

Le potenzialità di queste politiche sono state confermate anche da Elettricità Futura, la principale associazione del mondo elettrico italiano, che di recente ha ribadito come le sue imprese “assicurano da tempo la loro capacità di realizzare fino a 20 GW l’annose le autorizzazioni pubbliche riuscissero a reggere il ritmo” (Oggi marciano a circa 1 GW l’anno).

Per l’Italia, un’accelerazione delle rinnovabili coerente con il REPowerEU comporta benefici davvero importanti per l’economia, la società e l’ambiente. Si tratta di 309 mld di euro di investimenti cumulati al 2030 del settore elettrico e della sua filiera industriale, di 345 mld di benefici economici cumulati al 2030 in termini di valore aggiunto per filiera e indotto, di 470 mila nuovi posti di lavoro nella filiera e nell’indotto elettrico nel 2030 (che si aggiungeranno ai circa 120 mila attuali) e di una riduzione del 75% delle emissioni di CO2 del settore elettrico nel 2030 rispetto al 1990.

Una strada che, come sottolinea Mauro Albrizio, responsabile dell’Ufficio europeo di Legambiente, se percorsa adeguatamente e nei giusti tempi “consentirebbe di vincere la sfida della duplice crisi energetica e climatica, che rischia di mettere l’Italia in ginocchio”.

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