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Fischetto (J&J MedTech): “Stagione cruciale per i dispositivi medici”

GABRIELE FISCHETTO J&J MedTech
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Questo è un momento davvero cruciale per il settore dei dispositivi medici in Italia: 4.449 imprese e un mercato che vale 17,3 miliardi di euro (tra export e consumo interno). Alle sfide internazionali – dalle materie prime ai conflitti che infiammano il globo – si aggiunge la spada di Damocle del payback. Ma Gabriele Fischetto, ingegnere biomedico da poco meno di un anno presidente e amministratore delegato di J&J MedTech Italia, dopo il pronunciamento del Tar del Lazio resta ottimista.

Abituato a “smontare i problemi per affrontarli un pezzo alla volta”, Fischetto crede in un settore che, grazie alla tecnologia in medicina, ci porterà un futuro “sempre più personalizzato e smart. Ma serve una nuova governance per i dispositivi medici”, sottolinea a Fortune Italia l’Ad, 51 anni e due figlie, che ha iniziato il suo percorso professionale proprio in J&J 23 anni fa. “Sono ottimista: i segnali che vedo mi convincono che supereremo il payback, una misura iniqua che sta minancciando l’intero settore”.

Iniziamo da un tema caldo: le industrie dei dispositivi medici in Italia stanno affrontando una serie di sfide, payback incluso. Ora la situazione è stata congelata dal Tar del Lazio, come legge questa fase per il settore e per J&J MedTech Italia?

Siamo un’azienda paziente-centrica e vorremmo lavorare per un sistema che ha ben presenti i bisogni delle persone, altrimenti si rischia di trovare cure peggiori della malattia. La sfida principale è quella dell’efficienza del sistema. Serve una nuova governance per i dispositivi medici: dobbiamo puntare a un’offerta sanitaria programmata per patologia, in cui le risorse vengano riallocate in base ai bisogni di salute delle persone e in cui si punti a garantire un’introduzione rapida, seppur controllata, dell’innovazione. Il Tar conferma che non è materia semplice: il payback è uno degli ultimi sintomi di una patologia: la sostenibilità del Sistema sanitario nazionale. Parliamo di una misura che frustra, svilisce e crea profonda incertezza. Le aziende devono potere pianificare investimenti e risorse e diventa difficile spiegare in Europa e egli Stati Uniti quello che io definisco il mondo con il payback. Oltretutto il meccanismo è complicato e rischia di far vacillare il posizionamento dell’Italia nel settore. Devo dire però che sono ottimista: sono convinto che supereremo questa fase. Un mondo senza payback è ancora possibile.

Robotica, Big Data e AI stanno modificando la medicina, come valuta questa trasformazione in atto?

Stiamo vivendo un perdiodo frenetico ma anche entusiasmante, potremmo dire in piena ebollizione. Ad Harvard calcolano che la disruption che ci sarà nei prossimi 5 anni per i dispositivi medici sia pari a quella che c’è stata nei primi 100 anni di vita del settore. Noi abbiamo addirittura cambiato nome (prima era Johnson & Johnson Medical Spa, ndr), rafforzando il legame tra scienza e tecnologia. Il futuro sarà sempre più personalizzato e smart: ridurremo le complicanze, i tempi del trattamento chirurgico e quelli del recupero. Abbiamo recentemente lanciato un robot per la chirurgia del ginocchio dotato di una precisione millimetrica, che nessuna mano umana libera potrebbe avere. Ebbene, nelle prime settimane stiamo già vedendo un miglioramento dei tempi di recupero dei pazienti. Abbiamo da anni sonde che entrano nel cuore e realizzano mappe per la diagnosi e cura delle aritmie cardiache, è un’evoluzione estremamente affascinante da vivere.

Ci racconta di dispositivi sempre più tecnologici, ma resta il tema della sostenibilità. Lei un po’ lo ha accennato anche prima, ma come coniugare davvero l’innovazione con l’esigenza di controllo della spesa?

L’innovazione tecnologica andrebbe valutata attraverso l’Health Technology Assessment, con un percorso accelerato ma controllato che non concentri tutto solo sul prezzo. E questo perchè in questo settore a basso prezzo corrisponde bassa qualità. Come riuscirci? Bisogna ripensare il ciclo di acquisto, valutando l’outcome clinico del paziente. La spesa va vista sulla patologia e sull’individuo, non sulla prestazione: così i risparmi possono essere reinvestiti nel settore. Confindustria Dispositivi Medici insieme ad AIAC (Associazione Italiana di Aritmologia e Cardiostimolazione)ha svolto uno studio sulla fibrillazione atriale valutando i pazienti sottoposti all’intervento di ablazione: se guardiamo il singolo intervento rispetto al farmaco antiaritmico, ovviamente la spesa per il primo è enorme, ma nell’arco di 3 anni c’è un grande risparmio, anche solo considerando i costi per il Sistema sanitario e non quelli legati, ad esempio, alla perdita di produttività.

Questa mole di innovazione comporta anche nuove competenze, sia per gestire i dispositivi, sia nella fase della produzione. So che state investendo nella formazione, che diventa anche virtuale. Di che si tratta?

L’ingresso di queste tecnologie e dell’AI ci hanno imposto nuovi profili professionali, penso anche al reskilling dei nostri dipendenti. Da qualche mese abbiamo lanciato una piattaforma online con una dotazione enorme di percorsi formativi, personalizzabili in base alle caratteristiche e alle ambizioni di carriera del singolo dipendente. Non solo: per noi la formazione dei medici e del personale sanitario è da sempre fondamentale, come pure il benessere psicologico e la gestione dello stress di questi operatori. Ormai da tempo realtà virtuale, simulatori,  3D imaging e smart glasses vengono utilizzati per la formazione dei professionisti della salute, con ottimi risultati.

Nell’ultimo anno diverse imprese hanno annunciato investimenti nel nostro Paese. Che ruolo ha l’Italia per J&J MedTech e quali sono i suoi obiettivi nel medio periodo?

L’Italia è da sempre cruciale per J&J: siamo una delle cinque nazioni più importanti di Europa, Medio Oriente e Africa. Questo ranking, però, potrebbe cambiare con il payback. Il mio obiettivo è continuare ad attrarre investimenti in Italia, puntando a diventare il partner numero uno del Ssn. Non siamo lontani da questo obiettivo, ma dobbiamo continuare a fare bene, attraendo anche i migliori talenti:  vogliamo essere anche il luogo migliore dove lavorare.

Lei è un ingegnere, posso chiederle cosa pensava di fare da bambino e come è nata la passione per questo settore?

Da piccolo sognavo di fare il cowboy e ho scelto l’equitazione come sport (sorride, ndr). La passione per l’ingegneria è nata negli anni del liceo, poi all’Università di Bologna ho potuto scegliere ingegneria biomedica: mi affascinava il legame fra il mondo ingegneristico e quello del medico. Tanti anni di supporto in sala operatoria mi hanno permesso di associare quello che ho studiato a quello che volevo fare.

Se dovesse dare un suggerimento a un giovane alle prese con la scelta della carriera universitaria, cosa gli direbbe?

Bisogna seguire le nostre passioni, ma questo senza sottovalutare competenze trasversali come la capacità di lavorare in team. Penso che quello della salute sia un settore molto promettente e non parliamo solo di Medicina: ci sono tutte le materie Stem, Ingegneria, Matematica, Economia sanitaria. Ecco, invito i giovani – e soprattutto le giovani donne – a scegliere percorsi di questo tipo, dove le competenze sono molto ambite.

A proposito di donne, può darmi qualche numero di J&J MedTech Italia: quante sono le dipendenti, e quante nei ruoli apicali? Ci sono dei profili professionali che faticate a trovare o che ritiene particolarmente interessanti per la sua azienda?

Confermo che ormai da qualche tempo scegliamo i dipendenti sempre più nei percorsi Stem. Oggi poi servono leader che promuovano una cultura aziendale di resilienza e inclusione, capaci di fare squadra. Non esiste più il capo distante dall’organizzazione, che fa sfoggio di potere. Sono convinto che la diversità sia una ricchezza, anche oltre il genere: noi in J&J siamo anche misurati sul fatto che la forza lavoro rifletta la diversità dei nostri pazienti. E questa è la vera ricchezza di un’azienda oggi. In Italia siamo circa un migliaio di persone: il 60% dei dipendenti J&J MedTech è donna, come pure il 56,4% di chi ricopre ruoli da manager in poi. Nel caso dei dirigenti siamo al 50%.

Lei ha due figlie, cosa sogna per loro?

Tanta salute, come dicevano le nostre nonne (sorride, ndr). Dopodichè mi auguro anche che le mie figlie siano libere di scegliere: con chi stare, che professione fare, dove vivere. E se non fosse l’Italia, andrebbe bene lo stesso. Mi auguro infine che arrivino in un’azienda dove la diversità di genere non è più all’ordine del giorno, perchè è entrata ormai nel Dna delle imprese.

Se dovessimo risentirci fra tre anni, come pensa sarà la sanità italiana?

Sono un ottimista, voglio vedere segnali positivi e so chele aziende dei dispositivi medici hanno voglia di collaborare. Mi aspetto investimenti nel corso dei prossimi anni nel digital e in tutte le componenti che servono al settore. Insomma, supereremo il payback e continueremo a immettereinnovazione: credo che la sanità debba affrontare questa sfida garantendo ancora le cure a tutti, ma diventando più precisa, personalizzata, con meno errori e percorsi su misura.

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